Tic. Tic tic. Tac. Tic. Tac. Tic Tac.
«Ecco fatto. Lo sapevo io»
Tic tac. Tic-
«Cosa?»
«Vedi come finisce, eh…»
«Come finisce cosa? Non capisco».
Mi guarda, è mortificata: «scusa, ti ho interrotto».
La guardo.
«Non mi hai interrotto. Vai, di’!»
«No. Stavi scrivendo. Odio interromperti mentre scrivi».
Abbasso lo schermo del pc portatile e continuo a guardarla.
«Ecco fatto. Ora non sto più scrivendo. Niente più “tic tic tac”. Parla».
Eccolo qua: il sorriso più bello del giorno. Mi guarda. E sorride. Mi guarda e sorride. È seduta sul mio letto a gambe incrociate, indossa un maglione largo e dei pantaloncini da pigiama del tipo che adoro: cortissimi. Stava leggendo un Dylan Dog che le ho prestato ma ha smesso all’improvviso, lasciandoselo cadere tra le gambe. Beato Dylan Dog.
«Beato Dylan Dog»
«Eh?»
«Eh? Ah, no… mh… niente, pensavo ad alta voce». Mi guarda curiosa. «Dicevi?», butto lì.
«Niente… stavo leggendo il Dylan Dog che mi hai prestato…»
«Sì, ho visto»
«Cosa?»
«No, niente… dai, di’, non bloccarti sempre!»
«E niente, pensavo a questa storia del virus che gira…»
«Beh?»
«In questo fumetto Dylan affronta la fine del mondo… che finisce per un raffreddore».
Silenzio.
Idea. La guardo, mi avvicino sensibilmente e…
«Salute».
Fine. Cala il sipario. Il pubblico esce dalla sala deluso.
«Sei un coglione», dice lei, e non posso certo darle torto.
«Dai, giocavo», mi giustifico. «Comunque, dicevi?»
«Dicevo che vedi che risate ci facciamo se finisce tutto come hai sempre sostenuto tu»
«Io? Aspetta… che ho sostenuto io?»
«Apocalissi varie, zombie, “mirare alla testa”… tu guarda se non devo ritrovarmi in giro per la città alla ricerca di viveri con te che mi fai vedere come si fa per sopravvivere fracassando crani o robe così».
Pausa. Silenzio. Il pubblico torna in sala, la trama ha preso una piega insolita ed interessante.
«Ferma», la blocco io: «stai veramente dicendo che secondo te siamo nel bel mezzo di un’apocalisse zombie?»
«Ma ti pare? No! Sto solo dicendo che ho paura, tutto qui. La gente la sta prendendo davvero male… ogni giorno spuntano notizie nuove, per la maggior parte false… vengono assaliti i supermercati, viene continuamente puntato il dito verso chi potrebbe essere ‘infetto’… robe da film. Assurdo».
Sorrido.
Lei lo nota.
«Che sorridi?»
«Lo sai che sono preparato al peggio, vero?»
«Dai, imbecille! Sono seria!»
«Lo so, scusa… scusa!».
Lei si sdraia, il fumetto cade sul letto. Lo prendo.
«C’è psicosi nell’aria, si respira», dico. Lei mi guarda dal basso.
«Psicosi? La gente è impazzita»
«Sì, la gente è impazzita e infatti dimentica le cose importanti proprio come succede sempre nei film, tanto per cambiare»
«Cioè?»
«Cioè, non rispetta le norme di sicurezza, diventa egoista, mette a rischio la propria salute e quella degli altri senza pensare alle conseguenze, ed ecco qua che anche una cosa gestibile diventa complicata, pericolosa. Nei film di zombie funziona sempre così… tu ridi, ma è vero. Si crea il panico, il caos totale, quando basterebbe stare fermi un attimo, riflettere, aiutare il prossimo in difficoltà»
«Fammi capire», interrompe lei: «quindi tu non hai paura?»
«Non si tratta di avere paura, ma di avere cervello».
Il pubblico impazzisce. Scrosci di applausi. Anche gli spettatori meno convinti tornano al proprio posto.
«C’è solo un problema», continuo.
«Cioè?»
«Il cervello non è virale quanto un virus o la paura. Non si attacca facilmente, spesso viene evitato come la peste. Ecco perché ci si ritrova in situazioni come queste»
«Mh».
La vedo pensierosa, non ancora convinta al cento per cento.
«Non ti ho convinta, eh?»
«Quasi»
«Mh. Meglio di niente»
«Appartengo alla stirpe dei San Tommaso, lo sai… prima di credere in qualcosa devo toccare con mano!»
«Figurati».
Mi alzo, apro l’armadio, lei mi fissa e si solleva restando seduta sul letto a fissarmi.
«Che fai?»
«Niente, prendo la mazza da baseball»
«Perché?»
«Restando in tema cervelli, metti caso scoppiasse seriamente un’apocalisse zombie…».
Silenzio. Il pubblico trattiene il fiato. Lei pure.
«Sto scherzando, cretina, prendo i preservativi».
«Sei un maiale! E comunque non si può fare niente, va mantenuta la distanza di sicurezza di un metro! E ti prego, non fare le tue solite battute sulla lunghezza del tuo coso…»
Risate, il pubblico adulto si rilassa. I bambini non capiscono la battuta.
«E va bene, allora non si fa niente. Quarantena pura. Perfetto».
Sorride, si alza e si toglie il maglione, io resto a fissarla mentre si abbassa anche i pantaloncini super cortissimi.
«Beh? E la quarantena?»
«E che devo dirti? Sei tu l’esperto di film apocalittici, no?»
«E che c’entrano adesso i film apocalittici con te che ti spogli?»
«Le migliori storie che vengono raccontate dai tuoi film preferiti avvengono sempre perché qualcuno ha agito di testa propria per far fronte all’apocalisse, a volte addirittura mettendo a rischio la propria persona per amore».
Silenzio. Il pubblico capisce, o forse no. Trattiene il fiato.
«E… quindi?»
«Quindi, ognuno affronta la quarantena a proprio modo. Facciamo l’amore?»
Si avvicina. Mi bacia.
Sorrisetti tra il pubblico maschile e femminile. I bambini assistono schifati alla scena.
«Senti, io comunque scherzavo… non li ho i preservativi, li abbiamo finiti l’ultima volta…»
«Tranquillo… li ho io. Sicurezza e cervello prima di tutto».
Fine.
Applausi.
Il pubblico abbandona la sala soddisfatto. I bambini un po’ meno.
Miglior colpo di scena.
Migliore sceneggiatura.
Oscar.
Andrea Abbafati