Io sono Batman

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Un pensiero. Accosto, metto le quattro frecce, scendo e mi guardo intorno. Questa strada non la conosco, eppure la faccio tutti i giorni. C’è qualcosa di strano. Sento di non aver messo tutti i pezzi del puzzle al proprio posto, come invece credevo. Giorno di riposo. Ieri sono stato ad un concerto con il mio gruppo di amici, quelli che speri di avere sempre al tuo fianco soprattutto quando stai bene, per condividere con loro la tua felicità. Mi guardo intorno: sono in aperta campagna, in mezzo ad una stradina poco frequentata, e sto ripensando al concerto di ieri. Eravamo tanti, ballavamo e cantavamo sotto il diluvio universale con i lampi che in lontananza illuminavano Roma. Stavamo facendo quello che in quel momento ci faceva stare bene, o almeno a me faceva stare benissimo. Era tutto perfetto, fino a che un pensiero come sempre mi ha colpito mentre saltavo come un matto: “sei piccolo”. Una voce nella testa, così dal nulla: “sei piccolo”. Sbem. Distrutto. Anche il semplice saltare e spegnere la testa ormai risultava difficile, inutile. Come quando ascolti una canzone a palla e qualcuno ti dice che ascolti musica di merda… le cose sono due: o ti incazzi e lo mandi a quel paese o te ne sbatti le palle e ascolti e canti la canzone a volume ancora più alto. Per un attimo avevo deciso per la seconda opzione: ballare, cantare sotto la pioggia e vaffanculo. Invece mi sono fermato nel bel mezzo del concerto, completamente bagnato con tutti intorno a me che pogavano e si spingevano come dannati. Ho cominciato a pensare, mentre il cantante cantava la mia canzone preferita, domandandomi se qualcun altro lì vicino a me stesse pensando la stessa cosa che stavo pensando io.
Ora sono qui, in mezzo ad una stradina di campagna con l’auto accostata che penso e mi mordo le labbra, incazzato. Ma possibile che non riesco nemmeno a godermi un cazzo di giorno di riposo o un concerto? Penso a chiamare lei, ma no. Stavolta è impossibile, non potrebbe rispondermi. Stavolta me la gestisco da solo. Stringo i pugni, guardo in alto e urlo: «ma perché cazzo non potevo nascere Re Artù?». Silenzio. L’ho detto davvero… ma dovete capirmi: ho ventisette anni, indosso una maglietta che ormai mi sta larga e dei pantaloni corti che sono gli stessi che avevo ieri al concerto, ovviamente lavati. Ho capelli che non mi piacciono, un fisico che non mi piace mai, che una volta è troppo magro e un’altra è troppo massiccio e un naso che sembra rotto, ma soprattutto non ho super poteri, né un destino meraviglioso che mi attende. Cioè, non ho nessuna cazzo di spada nella roccia che mi aspetta da qualche parte, capito? Non pensate anche voi sia una cosa ingiusta? Oh, andrebbe bene anche un martello magico, tipo quello di Thor. O anche un super potere genetico, tipo Superman. Invece no. Non ho neanche una velocità supersonica, faccio sempre ritardo. Non ho tatuaggi, ho paura a farmeli, il ‘per sempre’ mi spaventa. Sono stonato, faccio movimenti goffi per ogni azione e non so ballare. Mi affeziono terribilmente, tanto da essere geloso di chiunque. Dai, come non essere compatito se mi ritrovo in un giorno a caso ad urlare in mezzo ad una stradina a caso incazzato con un dio a caso? Che poi giuro che c’ho provato spesso a somigliare ai miei idoli, o quantomeno agli idoli degli altri. Palestra, corsa, proteine, addominali e piegamenti, ‘sticazzi’ tatuato nell’anima, perché gira voce che il tipo che se ne sbatte di tutto e tutti piaccia. Ma niente… oh, io non sono così, quindi eccomi qui ad urlare da solo in mezzo alla campagna chiedendo a chi di dovere per quale motivo non mi abbia fatto nascere Re Artù. O Thor. O Superman. O anche un supereroe di serie C, non è che avrei disdegnato. Ma qualcuno di figo, qualcuno a cui spetta qualcosa, qualcuno da ammirare e non di cui ridere per le figure di merda che fa.
Pausa. Respiro. Alzo lo sguardo e vedo il cielo limpido che comincia a riempirsi di nuvole.
«Oh» dico, «eh» rispondo, «ma a te Superman t’è sempre stato sul cazzo». Rifletto. «Oh, è vero» ammetto, «mai sopportato. Facile spaccare i culi coi super poteri genetici» puntualizzo. «Appunto» mi dico, «e pure Thor. È praticamente l’unico personaggio cinematografico Marvel che non segui. Quindi, cazzo ti lamenti?». Ho ragione… che mi lamento? E improvvisamente la luce: ho sempre sognato di essere Batman, Robin, Spider-Man che sì, ha i super poteri, ma li ha guadagnati in quanto sfigato cronico. Come me. Ed ecco, finalmente la risposta: ‘sti cazzi. Ma ‘sti cazzi veramente eh… non ho mai avuto la pappetta pronta, ho sempre sgomitato e ho preso cazzotti in faccia per ottenere quello che volevo. Adesso me ne pento? No. Bene, ecco la risposta. Sono Batman, porca vacca. SONO BATMAN! E odio i Superman che hanno già tutto pronto, faccetta bella ripulita, addominali scolpiti, sguardo ammiccante, sorrisetto sicuro. Lotterò per tutta la vita contro la perfezione, perché la perfezione non esiste.
Respiro. Salgo in macchina ma scendo subito. Ho bisogno di sfogarmi e quindi salto, urlo, corro per i prati spaventando le vacche che stanno pascolando. Sono piccolo, ma sto bene. Salto, canto da schifo, ballo e mi slogo una caviglia, corro e mi scoppia il cuore. “Sei piccolo”, lo so. Ma ‘sti cazzi. “E sei anche volgare”, lo so. Ma ‘sti cazzi. “E ce l’hai sempre con tutti, stai sempre incazzato”, vero. Ma ‘sti cazzi.
Corro. Salto. Ballo.
Sono Batman.
Urlo. Canto. Rido.
Sono Batman. Ho la Batmobile.
Torno alla macchina, fiero, orgoglioso, calmo. Ho tutto quello che volevo, tutto. Devo solo sforzarmi un po’ di più, non avendo una spada magica e un mago che mi consiglia. Improvvisamente mi squilla il cellulare. È lei. «Oi? Come va? Che fai?» domanda. “Che fai?”, basta una domanda stupida per farmi stare meglio. Ho tutto. «Tutto bene, tutto alla grande mia dolce Catwoman!» urlo. Silenzio, la sento sospirare, «sei ubriaco, vero?» mi domanda ed io scoppio a ridere. «Non sono ubriaco scema, sono Batman. Non fare domande. Ti butti dal grattacielo con me?» domando, «ma se ci buttiamo ci sfracelliamo, cretino. Non sarebbe meglio essere Superman e Supergirl?», «NO!» la rimprovero, «siamo Batman e Catwoman e usiamo i gadget speciali per atterrare morbidamente» puntualizzo. Silenzio. «Ok, Bruce» dice lei, «ci vediamo stasera e andiamo a liberare Gotham City?» domanda, «certo» rispondo, «ciao scemo» e riattacca.
Ho tutto. Io ho tutto. Sono Batman. Sono Batman!
Salgo in macchina, giro la chiave.
Giro la chiave.
Giro… giro la chiave. Niente, la Batmobile non parte. Scendo, chiudo lo sportello e mi guardo intorno, scocciato, poi improvvisamente eccolo, lo vedo: il Superman di turno che sfreccia come un matto col suo mantello rosso, mi guarda, sorride maligno e soddisfatto e se ne va, lasciandomi lì dove mi ha trovato, da solo, nel mio piccolo.
‘Sticazzi.

Andrea Abbafati

La sindrome del bagnante

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Guardo l’orologio del furgone: segna un’ora avanti, quindi tecnicamente sono le ore precedenti rispetto l’ora segnata sullo schermo. Sono in ritardo, tanto per cambiare. Davanti a me la fila ferma di macchine in attesa che passino i supereroi a due ruote: gara ciclistica in corso, tutto bloccato. Di domenica mattina, sotto il sole cocente nel punto preciso in cui non c’è ombra manco a pagarla.
Ho già dimenticato l’ora ma evito di guardare l’orario sbagliato dello stereo: è una giornata di merda e come tale non ha orari. Lo sanno tutti. Quando una giornata inizia male non ha senso guardare che ora è perché il tempo si ferma e dura più a lungo, non finisce più e il momento del riposo non esiste, quindi tanto vale continuare a non guardare in che fascia oraria del giorno mi trovo.
Ho poche ore di sonno sul groppone e non riposo decentemente da troppo tempo, mi bruciano gli occhi, ho fame e non ho neanche fatto colazione. Ho un giramento di coglioni non indifferente. Da record. Mi guardo attorno sperando si materializzi improvvisamente un qualcosa, una via di fuga, un motivo per togliermi la divisa di dosso e buttarmi a capofitto in qualche avventura senza pensare ad un cazzo. Troppo volgare. A niente. Senza pensare a niente. La fila comincia a districarsi e improvvisamente mi squilla il telefonino.
È lei. Rispondo. «Oh». Silenzio. «Oh» ripete lei. «Beh?» chiedo io, «Che è successo?», «ma che risposta di merda è “oh”? Io ti chiamo e tu mi rispondi “oh”?» dice lei con quel tono magico, poetico e dolce che mi ricorda quei film horror in cui già al primo minuto schiatta qualcuno. È incazzata. Pure lei. «Scusa» mi riprendo subito io, «è che sto fermo in mezzo al traffico, aspetto che i principi in bicicletta decidano chi deve vincere la gara», intanto le auto davanti cominciano a muoversi quindi mi accingo ad avanzare lentamente. «Ah, capito» butta giù lei, «tra quanto stacchi?», «sto tornando ora per partire con il secondo giro, faccio giusto in tempo a prendermi un caffè da qualche parte penso», «ottimo» dice lei, «fermati al prossimo bar, sono dietro di te». SBEM. «Che?» domando io e lo sguardo mi va automaticamente sullo specchietto laterale sinistro e la vedo: lei, che lampeggia come una matta facendo smorfie con la bocca. Mi esplode il cuore. «Avevo bisogno di te, bella mia» sussurro più a me stesso che a lei, «eh? Che hai detto?» chiede lei, «niente… imprecavo contro i ciclisti. Senti appena arriviamo al bar ci fermiamo, ok?», «ok, tesssssoro» urla lei e lo sguardo mi torna allo specchietto e posso guardarla sfoggiare la sua bella lingua rossa con sguardo da smorfiosa.
Finalmente la strada si libera, avanzo per un po’ con lei al seguito, poi svolto a destra e mi fermo davanti ad un piccolo baretto della zona. Parcheggio, scendo e chiudo il furgone, lei è stata più veloce di me e mi aspetta in piedi, poggiata alla sua auto. «Buongiorno scemo!» dice con la grazia di una che riesce in modo tremendamente facile a superare un’incazzatura potente. Mi avvicino e faccio per abbracciarla ma lei mi ferma con una mano sul petto e mi guarda attentamente negli occhi: «stai incazzato nero. E sei stanco» dice scrutandomi attentamente, io sorrido stupito… volevo solo abbracciarla. «Volevo solo abbracciarti» ammetto, «perché devo essere sempre quello incazzato e stanco?» domando e lei risponde immediatamente con un «uff». “Uff”? «Cominciamo davvero con le domande complesse alle undici di mattina senza neanche aver preso un caffè?». Giusto… le undici; l’orologio segnava le dodici meno un quarto, quindi erano le undici meno un quarto, ovviamente quindici minuti dopo sono le undici, logico.
Decido di accantonare la questione “uff” e la accompagno nel bar. Il barista ci chiede cosa vogliamo, lei ordina due caffè, io sto zitto e la guardo. Non ho mai creduto nell’amore, nella bellezza fine a sé stessa, ma lei mi completa. È talmente spontanea, talmente piena di bene che non capisco come facciano gli altri a non innamorarsene.
Mi sta guardando. «Forza. Caffè ordinati, adesso possiamo affrontare i discorsi seri» dice. Comincio. Sono un fiume in piena, sicuramente adesso le dirò tutto quello che mi circola nella testa e nel cuore, cioè «niente». Niente? «Niente?» domanda, «ma come niente? Ti ho guardato imprecare contro i ciclisti quando non sapevi che ti stavo osservando. Sono anche quasi sicura tu ne abbia mandato a fanculo qualcuno… e adesso non hai niente?». Ops. Beccato. Prendo fiato. «Senti, non voglio incazzarmi, ok? Non devo incazzarmi, va bene? Ultimamente mi è stato fatto notare che mi incazzo sempre. Autocontrollo, ecco cosa mi serve. Devo riuscire a gestire la rabbia. Calmarmi. Devo prendere le cose più alla leggera, tutto qua». Silenzio. Arrivano i caffè ma lei sembra non accorgersene: mi guarda. «Quindi non puoi parlarne con me?». Steso. «Ma certo che posso parlarne con te… che c’entra? Solo che adesso volevo provare a calmarmi da solo, ad affrontare la cosa tra me e me ecco, tutto qua». «Mandando a fare in culo i ciclisti» sottolinea lei, «no… no! Non ho mandato a fare in culo nessuno!» mento io ma niente, lei scoppia a ridere. Sbuffo, so già che durerà per molto, prendo il caffè, lo condisco di dolcificante e bevo, lei fa altrettanto con lo zucchero di canna ma aspetta che la risata le passi, poi beve tutto di un sorso.
«Per una volta vorrei sentirmi come Cannavaro nel 2006 quando ha alzato la coppa» butto lì.
Silenzio. Lei posa lentamente la tazzina sul bancone, gli occhi spalancati fissi su di me: «tu» sussurra, «tu che parli di calcio? Ma soprattutto… tu che hai visto i mondiali del 2006?» domanda esterrefatta, «ma che c’entra?» mi giustifico, «non sto parlando di calcio, uno, e due: certo che li ho visti i mondiali. Ho anche festeggiato e per poco non infilzo uno con la bandiera quando Grosso ha segnato il rigore» ammetto sapendo già quale sarà la sua reazione… e infatti, ride. Ride tanto, porta le mani alla bocca e si dondola come una scema. La solita esagerata. «Seguivo ancora il calcio da ragazzino… ma adesso non è questo il discorso, sono serio!» esclamo offeso, cercando di riportare ordine. Lei capisce e mi guarda seria ed interessata: ora ho di nuovo la sua attenzione. «Dicevo, vorrei sentirmi come lui. Come Cannavaro in quel preciso istante. C’hai mai pensato a come devono essersi sentiti gli Azzurri? Secondo me hanno avuto la certezza assoluta di essere riusciti in quello che dovevano fare. Hanno vinto il mondiale, porca puttana. Cannavaro ha sollevato la coppa. S’abbracciavano tutti. L’Italia intera festeggiava con loro. Ecco, per un solo istante vorrei sentirmi così». Lei mi ascolta attenta, io continuo. «E come Grosso. Porca vacca, ma l’hai visto l’autocontrollo di Grosso al rigore decisivo? Io sarei morto. E avrei sicuramente sbagliato». Lei sorride, io mi fermo a pensare. «Non lo so che c’ho. Sono solo contento di poterne parlare con te», «e io sono felice di poterti ascoltare, scemo» risponde lei con un sorriso bellissimo, «e tu potrai essere Cannavaro e Grosso messi assieme ogni volta che vorrai. Ne hai tutte le capacità e soprattutto la grinta. Hai la grinta, cazzo, ma non te ne rendi conto» conclude. La guardo: «ho la sindrome del bagnante» confesso. Mi guarda, ora è confusa, «la sindrome di che?», domanda. «La sindrome del bagnante» ripeto io convinto, poi mi accingo finalmente a spiegare: «ieri sono andato in piscina con gli amici, ricordi? Ecco, tolta l’ansia di mettermi a torso nudo davanti a tutti ma va beh, ‘sta fissa che ho la conosci. Ecco, tolta l’ansia, sai la prima cosa che ho fatto qual è stata?» lei scuote la testa curiosa, «ho guardato il bagnino. Cioè, ho pagato l’entrata della piscina e neanche mi son messo la crema solare che subito ho guardato il bagnino», «e perché?» chiede lei. Mi preparo al peggio: «perché c’ho la sindrome del bagnante, te l’ho detto. Avevo paura di non essere fisicamente alla sua altezza. ‘Sti cazzo di bagnini hanno i fisici da supereroi, e ogni volta che uno va al mare deve subire il confronto. La sindrome del bagnante: sentirsi inferiori a qualcuno in un contesto comune». Finisco di spiegare e resto a guardarla in attesa di una sua risata fragorosa ma lei resta stranamente in silenzio, gli occhi fissi su di me, poi apre leggermente la bocca e dice: «ha senso». SBEM. Proseguo. «Ecco, ho la sindrome del bagnante. In ogni contesto. Si può chiamare anche “sindrome di bassa autostima” se vogliamo, magari rende di più. Mi sento a disagio in mezzo alla gente, perché so che risulterò sempre l’anello debole, quello che non sa e non può risolvere le situazioni. Sarò sempre un comune bagnante, non un bagnino. Sarò il babbano di turno, non il mago che va ad Hogwarts. Sarò sempre il civile che guarda i supereroi salvare il mondo e magari rischia anche di essere schiacciato da un grattacielo che crolla». Finisco di parlare e mi accorgo di avere la bocca allappata quindi ordino un bicchiere d’acqua del rubinetto e pago i due caffè, mentre lei sta zitta a pensare, stavolta con lo sguardo fisso sul pavimento.
Acqua bevuta, conto pagato, lei ancora che guarda per terra, le faccio segno di uscire e mi segue. Appena metto piede fuori mi manca il respiro a causa del caldo che quasi vorrei mandare a fare in culo il lavoro, i ciclisti e tutto il resto e tornare di nuovo nel bar per restarci fino a sera con lei, che adesso mi guarda con quegli occhioni bellissimi e quella bocca che è solo da baciare. Respiro. Sento il suo respiro. Le carezzo i capelli con la mano e sto per baciarla ma lei comincia improvvisamente a parlare, come un fiume in piena: «siamo due Babbani bellissimi che se ne fottono delle scope volanti e vanno in alto anche senza. Due civili che si vogliono bene, che si amano e lottano giorno dopo giorno contro i super cattivi senza avere i super poteri. Siamo due bagnanti che non ci penserebbero due volte se dovessero vedere qualcuno in acqua in difficoltà e correrebbero in soccorso, anche senza saper nuotare», vorrei abbracciarla ma mi impongo di farla finire. Deve dirmi tutto quello che ha dentro, perché solo lei può svoltarmi la giornata. «E sì, tu ti incazzi sempre, ma perché ci tieni. Tieni alla gente, alle cose che fai, ci credi. Quindi oh, incazzati. Fai macello, corri per due, tre ore, prendi a cazzotti il muro, ma non tenerti tutta ‘sta roba dentro perché il mondo perderebbe qualcosa di prezioso». Sbuffo, «il mondo non ha bisogno di uno che si emoziona per quello che fa e che si mette a parlare da solo sul furgone quando sta incazzato. Il mondo ha bisogno di gente che sappia prendere la decisione giusta al momento giusto. Certe volte mi sento in colpa ad emozionarmi per quelle che essenzialmente sono stronzate rispetto ai dolori che in questo preciso stanno affrontando molte persone. Boh. T’ho detto, ho mancanza d’autocontrollo e la sindrome del bagnante e insieme sono terribili. Vedo tutto nero e quando sono arrabbiato faccio i macelli. Devo calmarmi. Ah, c’ho pure la sindrome dell’abbandono se proprio vogliamo dirla tutta. A te capita mai? L’ossessione di essere abbandonati… di essere lasciati soli… la paranoia fissa in testa di essere sostituiti con qualcuno?» le domando, ma lei non risponde, si avvicina e mi bacia. La guardo. Mi guarda. «E questo?» dico. «Questo è il premio per essere quello che sei. Prendilo anche come assicurazione nel caso ti abbandonassi… dovrai ridarmelo. Dovrai riconsegnarmi il bacio. Allora mi bacerai e mi innamorerò nuovamente di te. Perché tu sei così. Sei da amare, scemo». SBEM. «Adesso va’, torna a lavoro, che devi salvare il mondo, bagnante coraggioso» dice sogghignando e dandomi un colpetto sul petto. La guardo, sorrido, poi la stringo forte a me. «Allora è deciso: alieni, zombie, maghi oscuri, ciclisti e bagnini maledetti… niente potrà fermarci. E soprattutto io non t’abbandono, e tu non abbandoni me» dico. Lei scoppia a ridere, mi prende il volto tra le mani e mi guarda dentro, nell’anima, come se avesse la vista a Raggi X di Superman: «mai».

Andrea Abbafati

Autoritratto (storia di una virgola)

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Bip bip. Bip bip. Bip bip. Bip–
Spegni la sveglia impostata al cellulare. L’ottava. Oggi è giorno di riposo. Oggi ti riposi.
La mente allenata a svegliarsi automaticamente alle tre e trenta del mattino, gli occhi che esplorano la stanza bagnata dal poco sole coperto dalle nuvole e la gola secca che non emette suoni.
«Ehm, ehm» provi a buttar giù. Bene. Le corde vocali sembrano rispondere. Tutto si muove, tutto funziona. Vivo anche oggi, metti i piedi giù dal letto. E’ tardi. E’ sempre tardi, anche se non hai nulla da fare per una volta. Per un giorno.
Nella stanza il disordine. Il portatile scarico, la batteria da cambiare, il carica batterie ancora attaccato alla presa elettrica, fogli sparsi sulla scrivania e fumetti ossessivamente posti in ordine numerico che appesantiscono le mensole di legno vecchie e coperte da pagine di mensili doppioni.
Ti rechi in bagno, apri l’acqua, ti sciacqui la faccia e ti guardi allo specchio. Barba incolta, capelli rasati, ciglia troppo grandi e un naso che sembra rotto ma che piace molto a molte. Le “mani da pianista”, come le ha sempre chiamate tua nonna ti carezzano il volto. Tale e quale ad ora. Sei tale e quale ad ora. Identico, spiccicato a come sei ora. Va tutto bene. In sala i tuoi si scambiano qualche battuta, ridono. Tuo fratello ti saluta con un cenno della testa. I nonni, di sotto, sono svegli dalle sei di mattina. Il cane ha fame e scodinzola davanti la porta. Fuori fa freddo, è novembre, manca poco a Natale. Tu, ancora in mutande, continui a guardarti allo specchio. Guardi il tuo corpo che cambia, che finalmente ti piace e che hai paura di veder rovinato, di nuovo. E pensi al passato. A ciò che è stato. A tutto quello che ti ha permesso di essere quello che sei ora.
Ti vesti. Fai colazione. Esci.
Fa freddo. Dalla bocca esce vapore misto a pensieri. Il tempo di un caffè e subito riesci a gestire la paranoie: ormai sei allenato. Hai parcheggiato l’auto lontano, così puoi passare del tempo con te stesso, camminando piano. E quanti saluti, quante strette di mano. Quante persone che a causa del tuo nome e cognome ti confondono per un altro.
La piazza è vuota, di questi tempi meglio stare a casa a passare il tempo libero. Qualche locandina affissa ti ricorda che è tempo di spettacolo. Il teatro forte, speranzoso, ricco di sogni e idee che non muore mai.
Ieri sera hai finito un fumetto nuovo e visto una puntata della tua serie tv preferita. Alimenti spesso il tuo cervello con storie scritte e raccontate da altri… il paradosso di chi scrive: per riposare e cercare l’ispirazione ci si nutre dei racconti urlati a squarciagola nel freddo vento invernale.
«Ciao bello, caffè al vetro o in tazza?» chiede la barista che non rispecchia assolutamente la ragazza dei tuoi sogni, quindi neanche ci provi. «Tazza, grazie» rispondi tu, poi «potrei avere il dolcificante al posto dello zucchero?». La linea è importante. Un caffè veloce accompagnato da qualche chiacchiera interessante spiccata da un chiacchiericcio noioso. Iniziano così le storie migliori. Finito il caffè paghi ed esci dal bar. La piazza continua ad essere vuota. Cammini. Decidi di attraversare sulle strisce pedonali e subito un signore che sembra aver fretta si ferma con l’auto e ti fa passare. Ringrazi. Lui sorride, poi riparte altrettanto di fretta. Passa una signora con le buste della spesa, si incrociano i vostri sguardi. Stavolta sei tu a sorridere, lei ricambia e abbassa la testa. Si vergogna? E’ davvero così intimo un saluto, di questi tempi? Più intimo della nudità?
Improvvisamente, un peso. Scansi leggermente la felpa che hai addosso e ricordi di avere al collo due collane. Pesano. Il peso dei sogni che si sente di più quando hai la testa vuota, rilassata, quando sei distratto. Il peso che ti ricorda che non si è mai da soli, una volta dato il via a qualcosa.
Acceleri il passo e ti ritrovi da solo, in mezzo ad una stradina.

Silenzio.

Respiri. Non hai paura.

Poi, da un vicoletto lì vicino, spunta una ragazzetta che dimostra quattordici, quindici anni. Canticchia tra sé. Si ferma un attimo, ti guarda, smette di cantare. I suoi enormi occhi marroni ti scrutano silenziosamente. Ha i capelli arruffatissimi e tra un capello e l’altro ti sembra di vedere un sogno incastrato che ancora non è riuscito a spiccare il volo. Avrà il suo tempo. Prima o poi riuscirà a districarsi da quei lunghi capelli e volerà lontano, ne sei sicuro e vorresti dirglielo ma lei, ancora concentrata su di te, ti precede disegnando sul suo viso con il pennarello dell’innocenza un sorriso sgargiante, pieno di luce. E’ già agosto?
E via. La piccola sognatrice continua il suo canto immersa tra i vicoletti di questo paese silenzioso. La guardi uscire dal tuo campo visivo canticchiando e saltellando, mentre tutt’attorno nulla è più grigio. Tutto è salvato.
Torni a casa. O meglio, prima torni alla macchina, poi torni a casa. E’ tardi. Vai in bagno e ti guardi allo specchio: le pupille dilatate come se avessi assunto qualche droga, le mani raggrinzite a causa del freddo, il cuore ben coperto e al caldo così come lo stomaco, in subbuglio. Sorridi. «Che poi, ti affanni tanto a cercare un motivo, un perché, quando basta stringere forti i pugni» dice il tizio allo specchio. Ha più capelli, qualche anno meno di te, meno esperienza, il naso che sembra rotto. «Ti fai trasportare troppo. Respira. Sii calmo. Non puoi salvare il mondo» continua. «Non posso salvare il mondo?» sussurri, sorpreso. «E allora che ci sto a fare?». «Fai parte della storia» dice lui. «Sei la virgola che se messa al posto giusto può dar senso alla frase». Sorride, «e ti prego… fai bella figura. La grammatica è importante» e se ne va. Lo specchio resta vuoto. Capisci. Anche il vuoto ha una storia. Anche le assenze portano avanti il racconto, per quanto male possano fare.
Le collane improvvisamente sembrano bruciare: una rappresenta un tornado, l’altra la libertà. Le stringi talmente forte che quasi le mani iniziano a sanguinare. Via dallo specchio, il riflesso non serve. Apri un’anta dell’armadio e ne tiri fuori un mantello rosso sgargiante che indossi immediatamente. Salvare il mondo magari no, ma nessuno ha detto che tu non possa essere un supereroe, giusto?
Nessuna maschera, trasparente come pochi, pugni ben stretti e gambe pronte a scattare. T’aspetta il mondo. Una storia da raccontare. Un falò e tutti attorno, per proteggersi l’un l’altro.
Il mondo no, non riuscirai a salvarlo… ma sorridi ugualmente, deciso, pronto.
Con coraggio, paura, dedizione e timore, farai sicuramente il possibile per far finire la storia nel miglior modo possibile, sfruttando tutto il potere che ti è concesso.

Finalmente un motivo. Finalmente un perché.

Riuscirai in tutto, virgola.

Andrea Abbafati

Del caffè

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Del caffè, dell’effetto che non fa sulla mia mente. Dell’odore della notte e della mattina presto, col sole che fa la prova tecnica per l’esibizione del giorno. Dei pensieri, dei racconti, della nausea post corsa dopo un’intera settimana passata a rincorrere. Di te che appari e scompari, di me che odio i giochi di magia. Delle sigarette, della puzza di fumo e dell’improvvisa voglia di sperimentare per vedere una volta tanto qualcosa uscire definitivamente dal tuo corpo e sparire nell’aria. Dei sentimenti grandi, immensi, meravigliosamente senza senso e della paura di perderli per sempre.
Di quello che succede del mondo. Delle serie tv sui supereroi. Dei fumetti che tra poco spezzeranno le ante della tua libreria. Delle avventure e delle canzoni tristi che partono mentre guardi l’orizzonte.
Degli addii.
Dei turni di lavoro, dei giorni di riposo con sveglia alle nove e alzata a mezzogiorno.
Della voglia di cambiare. Delle prove continue tutte le sere. Dei copioni imparati a memoria. Degli applausi, delle risate, dei complimenti, delle repliche, della voglia di fare qualcosa. Delle canzoni sussurrate sopra la musica per non perdere la voce prima di uno spettacolo. Dei saluti, delle litigate, della nostalgia degli abbracci. Di quando stavamo insieme. Di quando eravamo una squadra, tipo i Power Rangers, solo che non facevamo le mosse strane.
Dei ‘ti amo’, ‘ho paura’, ‘vaffanculo’. Della noia che ti porta a scrivere. Della stanchezza che ti porta a farti un caffè e a berlo amaro, perché “lo zucchero ingrassa”. Delle paranoie. Delle battaglie. Delle passeggiate solitarie ad attaccare locandine. Dei soldi spesi in cazzate.
Di te che te ne vai. Di te che torni. Delle nostre battaglie insieme. Dei sogni. Dei desideri. Di stasera che vado a cena con i nonni. Di me. Delle mie battaglie. Di noi. Delle nostre battaglie. Del mondo. Delle sue guerre.
Di quanto sei bella. Di quello che siamo. Di quando ti parlo e di quando mi guardi. Di quanto mi parli. Di quanto è bella la notte insieme. Di me che ti dico di non aver paura di nulla, che tanto ci sto io. Di te che mi poggi la testa sul petto alla mattina presto. Del mio cuore che batte. Dei nostri cuori che battono.
Che tanto sarà l’affetto a farci a pezzi. Sarà ‘sto “tump tump” ad ammazzarci.

Andrea Abbafati