Di zombie, di infetti, di apocalissi varie

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«Ieri ho visto un film horror sugli zombie».
D’un tratto la luce. C’era troppo silenzio. Stare seduti su di un muretto e starsene zitti zitti dopo un po’ annoia.
La guardo. «Che film era?» chiedo. «Non chiedermelo, non ne ho idea. Ma erano zombie strani. Cioè, correvano». Sorrido e, dall’alto della mia conoscenza del tema, spiego: «allora non erano zombie. Erano infetti». «Infetti?». «Infetti, sì». Lei mi guarda confusa. «Che cambia?» chiede. Sbuffo. «Mi ritengo offeso. Non conoscere una differenza così importante…», «senti scemo lo so che ami gli zombie, ma io sono ignorante in materia quindi o me lo dici o non me ne frega più niente!». La amo quando fa così. E anche quando non fa così. «Va bene, stop, calma. La differenza è semplice. Gli infetti corrono, hanno comportamenti quasi umani. Sono decisamente intelligenti. Sono forti. Gli zombie invece… beh, sono stupidi. Barcollano. Sono molto pericolosi in gruppo, nelle cosiddette orde. Entrambi però sfruttano l’udito per cercare le proprie “prede” ed entrambi trasmettono l’infezione attraverso il morso e in alcuni casi anche tramite sangue e saliva infetti». Mi guarda, sorride disgustata. «La tua passione per questa roba non l’ho mai realmente capita». Sorride di nuovo. «Cosa ti piace di tutto questo? Dell’apocalisse zombie… della sopravvivenza… cosa c’è di bello in questo genere di cose?». Mi schiarisco la voce. «Il cambiamento». Non capisce ma non vuole ammetterlo. Aspetta che mi spieghi meglio. «Nei film, nelle serie tv, nei fumetti, nei libri che parlano di questa roba… i personaggi cambiano. Finiscono con il dimostrare a tutti e soprattutto a sé stessi chi sono realmente. Coraggio, paura, nostalgia, amore, odio. Esce tutto fuori e gli zombie, gli infetti, finiscono con il diventare uno sfondo, un’allegra festicciola da evitare. Questo mi piace. I morti viventi finiscono con il far allontanare le persone cattive e unire chi vuole sopravvivere. Da soli si muore. In gruppo si prova ad andare avanti. Si formano delle comunità e finalmente si comincia a capire cosa significhi veramente vivere insieme quando si ha un nemico comune e delle regole importanti da rispettare». Silenzio. Pensa. «Mh» sussurra. «Ho capito». Meno male. «Mi piace quando la gente si aiuta» continuo, «e in situazioni terribili, dove la speranza sembra esser morta, si crea sempre un certo feeling, una sorta di collaborazione che finisce sempre per portare frutti. Dovremmo solamente provare a collaborare tutti quanti insieme prima che qualche zombie/infetto cominci a scorrazzare per le strade. Tutto qua». Sorride. «Quindi impazzisci per le storie zombie» dice. «Assolutamente» esclamo io.
Porca vacca, mi sa che s’aspettava una cosa tipo “assolutamente. Ma mi piaci più tu ovviamente, bambola!”.
Mh.
«E per te. Impazzisco soprattutto per te» aggiungo, ma mi parte l’esagerazione poetica e via, parto convintissimo: «tipo che io e te siamo sopravvissuti ad un’apocalisse zombie devastante, gli unici rimasti vivi in tutto il mondo». Esagera, cacchio, esagera! «E tu mi hai salvato. Altrimenti sarei diventato uno zombie pure io e mica mi sarebbe piaciuta ‘sta cosa».
Mi guarda, i suoi occhi mi scrutano attentamente. Sembra convinta.
«Forte!» esclama.
SBEM.
Conquistata.

Andrea Abbafati

Pausa

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Sono le sei e fa freddo. La notte se ne sta andando e io ogni tanto mi ritrovo a pensare a te alternando i tuoi occhi a qualche battuta del copione nuovo che sto studiando. Ne son successi di casini ultimamente, ma sono rilassato. Tranquillo. L’atmosfera mi aiuta.
Sono sul furgone, sto lavorando. Dallo stereo esce musica rap direttamente dalla mia pennetta USB… roba troppo confusionaria per una mattina così. Stacco e imposto lo stereo su ‘radio’. Stanno passando un tormentone estivo. Meglio di niente.
Sul sedile del passeggero fa la sua bella presenza una raccolta di testi teatrali di Benni tra i quali fa capolino prepotentemente “Il Dottor Divago”, uno dei miei pezzi preferiti. Ecco, mi sento come lui in questo preciso istante. Solo che no, fuori non piove. Ma tu non ci sei.
Potrei chiamarti ma già so cosa mi diresti: «ehi», e io «ehi. Scusami se ti ho svegliata» e tu mentiresti spudoratamente «ma scherzi. Ero sveglia». Piccola bugiarda tradita dalla tua stessa voce assonnata. Ma nonostante il sonno di entrambi staremmo le ore a sentirci respirare, io che ogni tanto scendo e risalgo dal furgone e tu sempre lì, in attesa. Perché è questo che fai: attendi.

Ma non ti chiamo.

Perché non sarebbe giusto.

Perché non vorresti ascoltarmi. O forse sì.

E poi devo lavorare.

Gli occhi mi cadono su un’alba spettacolare ma non riesco a fotografarla in tempo. Dai, lo sai che non uso il cellulare mentre guido. E’ pericoloso. Quindi mi fermo in un piazzale vuoto e scatto una foto ad un altro pezzetto di alba assolutamente diverso da quello di prima ma comunque bello. Potrei tornare indietro e fotografare quel tratto meraviglioso che come un dipinto mi ha accecato gli occhi ma sarebbe un’incoerenza pazzesca ed imperdonabile. Ho scattato una foto per te, che mi hai insegnato a non guardarmi indietro, ad apprezzare quello che ho adesso… non avrebbe senso tornare indietro per immortalare qualcosa che reputo più bello. Va bene così. Ci accontentiamo di questo pezzo di alba oggi, ok?
Metto in moto nuovamente il furgone e mi rimetto in cammino. Avevo lasciato il volume della radio a palla e quindi mi prende quasi un colpo quando la nuova canzone trasmessa parte in modo violentissimo. Che spavento! Penso a come avresti reagito tu, cominciando a dare piccoli calci a terra come una bambina arrabbiata perché una piccola paura improvvisa le ha buttato a terra l’elmetto da guerriera, e sorrido. «Che ridi, scemo?!» mi urleresti tu, «niente!» risponderei io e continuerei a guidare trattenendo la risata più grande del mondo.
Pausa. Ecco. Questa mattinata la chiamerò “Pausa”. Pausa a tutto e da tutti. Pausa da te, ti lascio dormire. Per questa volta mi accontento di immaginarti ma domani ti chiamo sicuro. Alle quattro. Domani ti chiamo alle quattro, appena sveglio. Sai che meraviglia? Entrambi assonnati, rincoglioniti dal sonno ma felici di sentirci. Probabilmente.
Pausa. Oggi sono in pausa. Spengo lo stereo. Si sente qualche grillo che canticchia fuori, mentre il furgone sfreccia piano per le strade. Si, piano. Dai, lo sai che non corro per strada. E’ pericoloso.
Pausa. Oggi metto in pausa. Il rumore. L’amore. La rabbia. Il rancore. I dibattiti. Lo stomaco che fa male. La dieta. Il senso di colpa per averla già infranta ieri, la dieta. Il mal di testa. Oggi metto in pausa anche lo studio del copione.
Squilla il telefono. Sei tu.
«Ehi scemo! A che punto stai?». “Ancora in alto mare bella mia. Non sono nemmeno a metà giro” dovrei dire, «buongiorno bella mia! Quasi a metà giro. Come mai già sveglia?» chiedo. Mi hai insegnato tu a guardare sempre positivo. «Ho dormito una merda». “Linguaggio!”, «linguaggio!». «Dai, ci manchi solo tu che mi fai la predica di prima mattina! Volevo solo sentirti, penso che andrò a farmi una doccia». “Lava via ogni cosa, bella mia. Tranne me”. «Perfetto. Ci sentiamo quando finisco, ok? Colazione insieme?» propongo. «Colazione insieme!» ripete lei, poi mette giù.
Pausa. Oggi sono in pausa. Non esiste niente, solo la strada. E la percorrerò tutta, fino alla mia destinazione.
Pausa. Oggi metto in pausa. Oggi vado piano, mi concedo un respiro in più. Accendo di nuovo la radio, stanno passando la pubblicità. Sorrido.
Pausa. Oggi pausa. Tutto tranquillo. So per certo che stavolta sì, stavolta andrà tutto bene.

 

Andrea Abbafati

Occhi sporchi

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«Tu hai gli occhi sporchi» dice.
«Eh?». “Eh?” è l’unica cosa che mi viene in mente per rispondere ad un’affermazione del genere.
«Hai gli occhi sporchi», ripetere tecnicamente non varrebbe, ma lei può. «P-può da-può darsi» balbetto, poi continuo ad osservarla. «Sai» dice lei «se hai gli occhi sporchi ti sembra tutto sporco». Silenzio. «Andrebbero puliti quegli occhietti». “Occhietti”: uno dei termini che odio di più al mondo, mi immagino sempre un volto enorme con due occhi minuscoli, quasi inesistenti… l’orrore… ma la sua voce ha l’incredibile potere di trasformare le cose schifose in quasi belle e allora sì, ho “gli occhietti”. «Beh… non so che dirti» butto là e lei subito, quasi avesse la risposta pronta «non sai che dire perché non vedi bene. Se hai gli occhi sporchi non vedi tutto nella sua forma, automaticamente non sai commentare, descrivere, parlare, vivere». Si alza. «Bisogna pulire quegli occhietti» dice, poi mi si avvicina, io ancora seduto la osservo. «E come?» chiedo, quasi temendo la risposta. «Chiudendoli un po’» dice lei. «Facendoli riposare. Li usi troppo. Stai troppo attento ai dettagli, li fai girare spesso. Vortici di curiosità. Ci pulisci gli angoli, con quegli occhi. Che pretendi poi? Che non siano sporchi?». Continuo a guardarla. Lei in piedi, bella, io seduto sul muretto, capelli rasati che tutti scambiano per calvizie e una bella miopia che mi fa vedere le cose in modo distorto. “Hai gli occhi sporchi” ed è subito chiarezza. Tutto è chiaro. Tutto si vede meglio. «Hai ragione. Di nuovo» dico, lei sorride presuntuosa. «E che t’aspettavi?» fa, poi si inginocchia sul muretto e mi abbraccia. Io la stringo più forte che posso e me ne esco con una frase che raramente dico: «mi aiuti a pulirli, ‘sti occhi?». Mi guarda. Ha lo sguardo pulito. Lo sguardo che pulisce. Le orecchie che ascoltano. Le labbra sincere, pronte a salvare. I capelli lunghi, che riscaldano e profumano di buono. Lentamente, le sue labbra si aprono ed esce la salvezza: «certo, piccolé».

Andrea Abbafati

Breve monologo sull’amore

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<<“L’amore è, due punti”. L’amore è:>>
ci pensa su. <<Mmh. “L’amore è, due punti”>>, continua a pensarci su. <<Mmh>>. Non gli viene in mente niente. Sospira. <<Uff>>.
Passa il tempo, passano le amicizie, gli amori: ieri amava lei poi lei è partita, puff, andata, oggi ama un’altra. Passano le relazioni, il tempo, l’inverno… è estate. Niente.
<<Mmh>>. Poi l’idea: una musica nuova. Scorre la lista. <<Mmh>>, mmh. Niente. Ancora niente ma ecco che “drin drin”, messaggio vocale. Nonna ha imparato ad usare Whatsapp ma può fare soltanto gli audio perché non riesce a scrivere: “Ciao lello! Me so fatta Uazzap!”. Ride.
L’idea. Mani sulla tastiera, musica nelle orecchie.
<<L’amore è nonna che impara qualcosa di nuovo per starti più vicino e nonno che quando ti vede urla “gioventù!”. Correzione: l’amore sono entrambi i nonni che quando ti vedono all’unisono urlano “gioventù!”. L’amore sei tu. L’amore sono mamma e papà che sanno che ti alzi alle quattro e quando non sentono il cazzo di trambusto che fai ogni mattina a quell’ora si preoccupano e vengono a svegliarti, poi magari tu ti sei già alzato come un ninja e loro rimangono fregati e si sono alzati per niente.
L’amore è ammettere che qualche volta ti hanno salvato il culo svegliandoti all’ultimo. L’amore è tuo fratello che ti ruba i DVD lasciando il caos sulla scrivania. L’amore è qualcuno che ti scrive “pensa ad Andrea”. L’amore è avere miliardi di lettere, foto, pensieri, pezzi di cuori che pulseranno per sempre. L’amore è avere più di una famiglia adottiva, gente che t’ha scelto nonostante tutto. L’amore è avere l’amore e darlo in giro, spargerlo, coltivarlo. L’amore è una canzone leggera, profumata, che sa di danza classica, una coreografia, un copione… una matinée ripetuta per due, la stanchezza, il turno di notte, il non riuscire comunque a dormire.
L’amore è pensare continuamente alle persone che abbiamo perso perché ci mancano. L’amore è mandare a quel paese per il nostro bene le persone che abbiamo perso anche se ci manca terribilmente il loro profumo; l’amore è decidere di accogliere quelle persone nel caso un giorno decidessero di tornare.
L’amore è avere persone importanti, piccole ed indifese al proprio fianco, guardarle crescere mentre si innamorano, sperare non si dimentichino mai di te. L’amore è proteggere.
L’amore è promettere un monologo breve ma scrivere un poema lungo quanto la canzone che ci ispira riascoltata per sette volte di fila. L’amore è non darsi un tempo, non respirare, trattenere il fiato, non lavarsi se necessario, ingozzarsi di menefreghismo e concentrarsi su qualcosa, dedicarci la vita.
L’amore è stare male tutto il giorno e risollevarsi con un pensiero>>.
“Fine”, pensa.
Sorride.
Fine?

Andrea Abbafati