RacCorto n. 7 – Prosciutto

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

«Ci hai mai pensato?».
Mi guarda.
La domanda è uscita dalla mia bocca quasi meccanicamente, senza che io potessi fermarla. Così, all’improvviso.
«A cosa?» domanda lei, i suoi occhi profondi fissi su di me. Adoro guardarle gli occhi; sembrano brillare sempre, ogni ora del giorno, e non sono mai riuscito a capire di che colore siano. Non ho nemmeno mai chiesto. Preferisco vivere con il mistero e quel senso di scoperta ogni volta che mi guarda.
«A noi». La mia risposta non ha senso, ma lei sembra capirla ugualmente. Annuisce lentamente con la testa, poi abbozza un piccolo sorriso. «Sì».
“Sì”.
«Molto spesso, in realtà» aggiunge poi. I suoi ricci dorati riflettono la luce del sole che tanto le piace. Il rumore del mare accompagna i nostri sguardi e le sue smorfie colorate.
«E a cosa hai pensato?».
«Che vuoi sapere?» Leggi tutto “RacCorto n. 7 – Prosciutto”

Virale

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

Tic. Tic tic. Tac. Tic. Tac. Tic Tac.
«Ecco fatto. Lo sapevo io»
Tic tac. Tic-
«Cosa?»
«Vedi come finisce, eh…»
«Come finisce cosa? Non capisco».
Mi guarda, è mortificata: «scusa, ti ho interrotto».
La guardo.
«Non mi hai interrotto. Vai, di’!»
«No. Stavi scrivendo. Odio interromperti mentre scrivi».
Abbasso lo schermo del pc portatile e continuo a guardarla.
«Ecco fatto. Ora non sto più scrivendo. Niente più “tic tic tac”. Parla».
Eccolo qua: il sorriso più bello del giorno. Mi guarda. E sorride. Mi guarda e sorride. È seduta sul mio letto a gambe incrociate, indossa un maglione largo e dei pantaloncini da pigiama del tipo che adoro: cortissimi. Stava leggendo un Dylan Dog che le ho prestato ma ha smesso all’improvviso, lasciandoselo cadere tra le gambe. Beato Dylan Dog.
«Beato Dylan Dog»
«Eh?»
«Eh? Ah, no… mh… niente, pensavo ad alta voce». Mi guarda curiosa. «Dicevi?», butto lì.
«Niente… stavo leggendo il Dylan Dog che mi hai prestato…»
«Sì, ho visto»
«Cosa?»
«No, niente… dai, di’, non bloccarti sempre!»
«E niente, pensavo a questa storia del virus che gira…»
«Beh?»
«In questo fumetto Dylan affronta la fine del mondo… che finisce per un raffreddore».
Silenzio.
Idea. La guardo, mi avvicino sensibilmente e…
«Salute».
Fine. Cala il sipario. Il pubblico esce dalla sala deluso.
«Sei un coglione», dice lei, e non posso certo darle torto.
«Dai, giocavo», mi giustifico. «Comunque, dicevi?»
«Dicevo che vedi che risate ci facciamo se finisce tutto come hai sempre sostenuto tu»
«Io? Aspetta… che ho sostenuto io?»
«Apocalissi varie, zombie, “mirare alla testa”… tu guarda se non devo ritrovarmi in giro per la città alla ricerca di viveri con te che mi fai vedere come si fa per sopravvivere fracassando crani o robe così».
Pausa. Silenzio. Il pubblico torna in sala, la trama ha preso una piega insolita ed interessante.
«Ferma», la blocco io: «stai veramente dicendo che secondo te siamo nel bel mezzo di un’apocalisse zombie?»
«Ma ti pare? No! Sto solo dicendo che ho paura, tutto qui. La gente la sta prendendo davvero male… ogni giorno spuntano notizie nuove, per la maggior parte false… vengono assaliti i supermercati, viene continuamente puntato il dito verso chi potrebbe essere ‘infetto’… robe da film. Assurdo».
Sorrido.
Lei lo nota.
«Che sorridi?»
«Lo sai che sono preparato al peggio, vero?»
«Dai, imbecille! Sono seria!»
«Lo so, scusa… scusa!».
Lei si sdraia, il fumetto cade sul letto. Lo prendo.
«C’è psicosi nell’aria, si respira», dico. Lei mi guarda dal basso.
«Psicosi? La gente è impazzita»
«Sì, la gente è impazzita e infatti dimentica le cose importanti proprio come succede sempre nei film, tanto per cambiare»
«Cioè?»
«Cioè, non rispetta le norme di sicurezza, diventa egoista, mette a rischio la propria salute e quella degli altri senza pensare alle conseguenze, ed ecco qua che anche una cosa gestibile diventa complicata, pericolosa. Nei film di zombie funziona sempre così… tu ridi, ma è vero. Si crea il panico, il caos totale, quando basterebbe stare fermi un attimo, riflettere, aiutare il prossimo in difficoltà»
«Fammi capire», interrompe lei: «quindi tu non hai paura?»
«Non si tratta di avere paura, ma di avere cervello».
Il pubblico impazzisce. Scrosci di applausi. Anche gli spettatori meno convinti tornano al proprio posto.
«C’è solo un problema», continuo.
«Cioè?»
«Il cervello non è virale quanto un virus o la paura. Non si attacca facilmente, spesso viene evitato come la peste. Ecco perché ci si ritrova in situazioni come queste»
«Mh».
La vedo pensierosa, non ancora convinta al cento per cento.
«Non ti ho convinta, eh?»
«Quasi»
«Mh. Meglio di niente»
«Appartengo alla stirpe dei San Tommaso, lo sai… prima di credere in qualcosa devo toccare con mano!»
«Figurati».
Mi alzo, apro l’armadio, lei mi fissa e si solleva restando seduta sul letto a fissarmi.
«Che fai?»
«Niente, prendo la mazza da baseball»
«Perché?»
«Restando in tema cervelli, metti caso scoppiasse seriamente un’apocalisse zombie…».
Silenzio. Il pubblico trattiene il fiato. Lei pure.
«Sto scherzando, cretina, prendo i preservativi».
«Sei un maiale! E comunque non si può fare niente, va mantenuta la distanza di sicurezza di un metro! E ti prego, non fare le tue solite battute sulla lunghezza del tuo coso…»
Risate, il pubblico adulto si rilassa. I bambini non capiscono la battuta.
«E va bene, allora non si fa niente. Quarantena pura. Perfetto».
Sorride, si alza e si toglie il maglione, io resto a fissarla mentre si abbassa anche i pantaloncini super cortissimi.
«Beh? E la quarantena?»
«E che devo dirti? Sei tu l’esperto di film apocalittici, no?»
«E che c’entrano adesso i film apocalittici con te che ti spogli?»
«Le migliori storie che vengono raccontate dai tuoi film preferiti avvengono sempre perché qualcuno ha agito di testa propria per far fronte all’apocalisse, a volte addirittura mettendo a rischio la propria persona per amore».
Silenzio. Il pubblico capisce, o forse no. Trattiene il fiato.
«E… quindi?»
«Quindi, ognuno affronta la quarantena a proprio modo. Facciamo l’amore?»
Si avvicina. Mi bacia.
Sorrisetti tra il pubblico maschile e femminile. I bambini assistono schifati alla scena.
«Senti, io comunque scherzavo… non li ho i preservativi, li abbiamo finiti l’ultima volta…»
«Tranquillo… li ho io. Sicurezza e cervello prima di tutto».
Fine.
Applausi.
Il pubblico abbandona la sala soddisfatto. I bambini un po’ meno.
Miglior colpo di scena.
Migliore sceneggiatura.
Oscar.

Andrea Abbafati

Sport drink

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

«Oi?»
«Oi»
«Finalmente. Ti ho fatto tre chiamate, pensavo fosse successo qualcosa. Sei sparito. Tutto ok?»
«Sì… sto un attimo incasinato in realtà… prima non potevo rispondere, scusa»
«Ti richiamo dopo? Tutto bene? Che è successo?»
«No, no tranquilla, ne sono uscito. Nulla di grave, dovrei aver risolto»
«Ne sei uscito da cosa? Mi stai facendo preoccupare»
«Senti, io te lo dico ma tu non ridere, ok?»
«Ma certo… spara…»
«BANG!»
«Oh, hai rotto i coglioni con ‘sta battuta tutte le volte! Io sono preoccupata e tu giochi?»
«Dai, scusa! Ok, vado… allora vado»
«Eh, vai…»
«Mi sono perso».
Silenzio.
Tanto silenzio. Sento solo il rumore del furgone sul quale sto posando le chiappe ma dal vivavoce del cellulare niente.
«Oh? Sei caduta?»
«Che significa che ti sei perso?»
«Cioè, non mi sono perso… nel senso… mi sono distratto, ecco»
«Ti sei distratto»
«Sì, mi sono distratto»
«Stai facendo il giro di consegna di Roma, giusto?»
«Sì, perché?»
«Lo fai da quattro anni ormai, no?»
«Quasi cinque in realtà, ma perché?»
«E ti sei perso?»
«No, ferma… cioè… non mi sono perso, mi sono distratto»
«Ti sei distratto»
«Oh Gesù… ho sbagliato strada, ok?»
«Hai sbagliato strada»
«Mi stai sul cazzo quando fai il pappagallo»
«Ma brutto fesso che non sei altro, mi ci fai capire qualcosa? Che significa che hai sbagliato strada?»
«Oh senti, non se ne può più… ti dico tutto e via»
«Hallelujah»
«Ho preso il Raccordo al contrario».
Silenzio lunghissimo.

 

Lunghissimo.

 

Lunghissimissimo.

 

«Sei caduta di nuovo?»
«Cioè fammi capire… hai preso il G.R.A. contromano?»
«NO! Ma che sei scema? Ti pare?»
«E allora che intendi con “al contrario”, scusa?»
«Intendo che l’ho preso direzione Firenze invece che direzione Napoli. Mi sono fatto cinquanta minuti in più ma sono quasi arrivato. Da ritiro patente proprio. Mi è pure impazzito il navigatore e non sapevo che cazzo fare. Sono andato tipo in crisi e quando sono per strada e vado in crisi non riesco a trovare nemmeno la via di casa mia grazie al mio meraviglioso senso dell’orientamento. I colleghi sicuro mi sfotteranno a vita».
Silenzio.
Ho come l’impressione che non saranno soltanto i colleghi a sfottermi a vita.
«Oh? Beh? Non dici niente?»
Ride. Scoppia a ridere dall’altra parte del telefono.
«Bene. Grazie. È sempre bello sentirsi capiti»
«Oddio scusa… scusa, scusa, SCUSA!! È che… boh… SCUSA!». E ride. Di nuovo.
«No ma lo capisco, figurati. Ora scusa ma metto giù che già ho l’orgoglio ferito, ci manchi solo tu a prendermi per il culo»
«No, fermo! Non ti sto prendendo per il culo, scemo! È solo che è una situazione buffa… che ti frega dei colleghi? Non è successo nulla di grave, hai soltanto sbagliato strada… pensi che a loro non capita mai?»
«Boh. Di sicuro sono bravi a non farlo notare»
«Che è decisamente diverso dal “non sbagliare mai”. Non trovi?»
Sorrido.
«Già»
«Comunque… come mai eri così distratto? Cosa gira in quella testaccia piena di cose? A che pensavi, fesso?»
«A te».
Silenzio. Questo sconosciuto amico.
«Ah. Sono fonte di distrazione quindi. Bene»
«Dai, scema… hai capito che intendo»
«Più o meno… quindi mi pensavi?»
«C’è un momento in cui non ti penso, secondo te?».
La sento che sorride.
«Mi pensi troppo evidentemente, scemo. Facciamo che quando vedi che pensandomi ti perdi nelle tue cose e nei tuoi pensieri mi chiami e ti rimetto sulla retta via, ok? Che dici, può andare?»
«Sì, credo possa funzionare. Bella idea!»
Ridiamo.
«Senti, piuttosto… come è andata la partita di basket, ieri sera? Poi non ci siamo più sentiti che sono crollata sul letto e non ho nemmeno messo la sveglia»
«Mh. Bene, dai»
«Ecco fatto. “Bene, dai”?»
«Sì, cioè… è andata bene. Ho giocato uno schifo ma stavo fisicamente e psicologicamente a pezzi quindi boh, forse è per quello»
«Posso venire a vederti giocare qualche volta?».
SBAM. Silenzio.
Stavolta è colpa mia.
«Oh? Sei caduto?»
«No, no… sono qua»
«Beh? Se non vuoi che vengo non è un problema eh!»
«No, ma scherzi? Cioè… ammetto che è una cosa che non ho mai fatto»
«Non ti sei mai portato una ragazza che ti piace alla partita di basket? Serio?»
«Non c’è mai stata una ragazza che mi piacesse come mi piaci tu interessata a venire a vedermi giocare a basket, è diverso»
«Ah! Beh… tadannnn! L’hai appena trovata!».
Scoppiamo a ridere nello stesso istante. Piccolo silenzio.
«Allora? Andata?»
«Certo. Assolutamente. Andata!»
«Senti ma… non è che ieri hai giocato uno schifo perché mi pensavi, no?».
E ride. Di nuovo. Ride che è una bellezza. Ride una risata senza pensieri. Ride una risata pulita, pura, bella.
«Chissà. Potrebbe essere. Ammetto che un po’ t’ho pensata tra un terzo tempo e l’altro»
«Mi ti immagino troppo a giocare a basket, tutto sudato che imprechi perché pensi di poter giocare meglio di quanto stai facendo».
Sorrido.
«Sì, più o meno sono così»
«Dovresti accettare il fatto di non essere perfetto ogni tanto. Dovresti sorridere dei tuoi errori ma soprattutto dei tuoi limiti. Dovresti essere fiero di ciò che sei e di ciò che stai facendo»
«Dici?»
«Dico, bello mio. Sei merce rara di questi tempi».
Silenzio. Penso.
«Già. Se lo dici tu… mi fido»
«E certo che ti fidi… vorrei vedere!»
«Oi, vedi che io sono arrivato… confermato per questa sera allora? Ci vediamo?»
«Certo che sì bello mio. Ci vediamo a ora di cena sul corso, facciamo una lunga passeggiata come al solito finché non sveniamo e poi ci mangiamo una cosa, che dici?»
«Dico che è perfetto, scema»
«Alla grande allora, scemo! E mi raccomando non perderti durante il tragitto!»
«Vaffanculo!».
Ride. Ride tantissimo.
«Come vuole, sir! Dai, gioco! Ci vediamo stasera… e fammi sapere quando fate la prossima partitella che vengo a fare il tifo e a tirarti la Gatorade in faccia quando avrai sete!». E mette giù, tra una risata e l’altra.

Avrei voluto dirtelo, ma pensavo fosse fuori contesto. Non ho bisogno di bevande colorate o di robe varie per aumentare la prestazione. Mi basta sapere che da qualche parte ci sei te e che faccio parte di un briciolo dei tuoi pensieri. Pensarti, sperarti, è questo che mi dà energia. Tipo che dopo la partita vado al bar e:
«Una bottiglia grande di Lei, grazie»
«Prego?»
«Ehm… una bottiglia grande di Gatorade, grazie».
Mi scombini l’esistenza e i modi di fare. Mi rincoglionisci.
«Un cornetto macchiato freddo e un caffè integrale con miele, grazie».
Sei la colazione perfetta. Il pensiero energizzante quando sono stanco. Fare errori e figure di merda non è mai stato così divertente da quando ti conosco.
Risata dopo risata, passeggiata dopo passeggiata mi sono reso conto di una cosa preziosa: sei tu il mio sport drink preferito.

 

Andrea Abbafati

Il trombettista fa il suo dovere

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

«La cioccolata calda».
Silenzio. Alzo lo sguardo su di lei. Sta guardando la tazza davanti a me quasi con disgusto.
«Sì, la cioccolata calda»
«Per carità, è buona eh»
«È molto buona, e allora?»
«E allora niente… hai ordinato una cioccolata calda»
«Sì» dico, «ho ordinato una cioccolata calda e la sto bevendo»
«Mentre io ho ordinato una birra. Fredda»
«Perché calda, la birra, fa schifo» dico.
Silenzio. Ci pensa su.
«Giusto».
Hallelujah. Sollevo la tazza, poggio le labbra sul bordo e…
«Cioccolata calda» dice lei.
Poso la tazza. La guardo non riuscendo a trattenere un sospiro scocciato.
«Mi spieghi cosa ci trovi di strano nella mia cioccolata calda?»
«Niente, tranne il fatto che a te sta sul cazzo la cioccolata calda, ma la stai bevendo comunque»
«Fammi capire, adesso uno non può cambiare gusti?»
«Assolutamente. Senti ho un’idea, perché stasera non andiamo a farci una bella carciofolata da qualche parte?».
Silenzio.
Stronza.
«Lo sai che a me non piacciono i carciofi» dico.
«Certo che lo so, ma speravo avessi… cambiato gusti». Ride. «Dai, sto scherzando scemo. Goditi la tua cioccolata calda, non ti rompo i coglioni»
«Non mi rompi i coglioni»
«Lo so, l’ho appena detto»
«No, nel senso… va be’, niente».
Bevo.
Lei continua a ridere, ma silenziosamente.
Mando giù in fretta e furia tanto da bruciarmi la gola.
«Che ridi?»
«Niente, sei buffo, non chiedermi perché. Non saprei rispondere»
«Ok»
«Okè».
Silenzio. Bevo di nuovo, lei manda giù qualche sorso di birra poi guarda fuori dalla finestra.
Mi viene in mente una cosa.
«Comunque poi l’ho fatta quella cosa».
Mi guarda.
«Davvero?»
«Sì. Dubitavi?»
«No, ma sinceramente non pensavo ti organizzassi così velocemente»
«E invece sì! Visto? Ti ho stupita»
«Veramente! Sono orgogliosa di te, bravo» dice, poi beve un altro sorso di birra.
Sorrido. Poi mi viene un dubbio. La guardo attentamente e vedo che non sta bevendo ma sta usando il boccale per non farmi vedere che…
Sta ridendo.
«Tu non hai capito di che cosa diamine sto parlando» dico.
Mi guarda sorridente.
«Ma certo che ho capito… quella cosa, no?»
«Basta, mi fai incazzare quando fai così, non ti dico più un ca…»
«Linguaggio»
«Oh, ma linguaggio un cazzo!».
Silenzio. Ora ha lo sguardo turbato.
«Signorino, modera i termini»
«Ma stai parlando con tuo figlio? Ma sei seria? Ti sto dicendo una cosa importante e tu fai la cretina?»
«Guarda che ti conosco, tu non stai dicendo qualcosa… stai soltanto cercando approvazione e io l’approvazione non te la do solo per farti contento e per farti sentire “ok”, ok?».
Stop.
Pausa.
Rewind.
Mi guarda.
«Lo so che non l’hai fatta quella cosa. C’hai provato, ti sei disperato perché non ti è riuscita in due, tre giorni e hai lasciato stare, poi però c’hai riprovato e c’hai riprovato e c’hai riprovato. Poi hai deciso di ordinare una cazzo di cioccolata calda che neanche ti piace soltanto per farmi vedere chissà che cosa, lo sai solo tu, e adesso in questo bel siparietto ci sei tu che sei gelido, la cioccolata che si sta gelando e io che ho i coglioni che girano a mille perché tu sei gelido».
Fine.
Sipario.
Applausi.
Il pubblico si alza e chiede indietro i soldi del biglietto.
«Non è proprio così» balbetto. Lei mi guarda innervosita. «Sul serio»
«E allora com’è?»
«Ci sto provando ancora a fare quella cosa, davvero. Non ho mollato»
«E che è ‘sta moda di ordinare una cosa che odi? Pensi davvero che quella cosa si attui così?»
«Ma io che ne so?»
«Oh, svegliati cocco… non è mangiando roba che ti fa schifo che ti aiuterà a fare qualsiasi cosa tu voglia fare»
«Avevo voglia di novità, ok?».
Silenzio.
Tasto dolente.
Mi guarda. Prende fiato.
«Se avevi voglia di novità mi portavi in vacanza da qualche parte sconosciuta, non ordinavi una dannata cioccolata calda. Al gusto peperoncino poi? Ma che è?»
«Ho fatto una stronzata, ok? Adesso dobbiamo rovinarci il pomeriggio per la mia cioccolata calda?»
«Non è tua! Una cosa che non ti piace non può essere tua, santo Dio!»
«Mia per modo di dire! Ma che è ‘sta cosa di puntualizzare oggi?»
«Devi fare ordine, ecco perché puntualizzo… devi fare ordine in quella testa altrimenti rischi di affogare!»
«Ma rischio di affogare dove? Ma che stai dicendo?»
«Sì! Rischi di affogare nella merda che ti crei da solo, ok?».
Colpito e affondato.
«Guarda che lo so cosa stai facendo. “La novità”… adesso cerchi “la novità”. Lo so dove vuoi andare a parare, non me la fai cocco. Ti conosco troppo bene»
«Sentiamo, sono tutto orecchi»
«Non “sentiamo” proprio niente invece. Io non devo dirti niente, sai già tutto»
«Che due palle quando fai così però»
«Ah, pure? Non puoi lamentarti se ti conosco troppo bene. Com’è, ‘sta cosa ti piace solo quando ti fa comodo?»
«No macché, è che boh… mi butti a terra e mi salti sopra. Mi smonti l’entusiasmo»
«Guardami». La guardo. «Ho torto? Quella cosa ti sta riuscendo davvero?»
Silenzio.
Il pubblico ha capito il trucco.
Lo spettacolo di magia è fallito.
«No. Non mi sta riuscendo per un cazzo. Cioè sì, ma a tratti»
«A tratti. Come un vecchio videogioco della play che va a scatti e si blocca?». Sorrido.
«Sì, proprio come un vecchio videogioco della play che va a scatti e si blocca» ammetto, poi continuo: «il fatto è che vado a rilento, sono partito con l’entusiasmo esagerato ma ora vado a rilento. Studio gli altri, cerco di capire le tecniche, i segreti per riuscire al meglio in quella cosa ma non va tanto bene… cioè, magari va anche bene, ma per ora mi sto limitando ad imitare gli altri»
«Ed è giusto così, allora».
Silenzio.
Il pubblico trattiene il fiato.
Colpo di scena!
«Aspe’… in che senso? È giusto che imito gli altri?»
«Quando stai facendo una cosa per te nuova? Certo. Anche nello sport funziona così. Studi gli altri, le tecniche di gioco, gli schemi, ti attacchi i poster dei campioni in camera e sogni di essere come loro. Giusto così. Hai semplicemente bisogno di prendere ispirazione dai migliori o da chi ci sa fare meglio di te».
Applausi.
Boati.
Oscar. “And the winner is…”
«Sai che c’è» dico. «Mi sa che anche stavolta hai ragione»
«Tanto per cambiare, cocco bello» dice lei, poi finisce la birra e scosta leggermente la bottiglia vuota per avere davanti a sé spazio, allunga le mani e prende le mie. Mi guarda.
«Ti fai un botto di problemi. Comincia a uscirti fumo dalle orecchie, sai?».
Ha i capelli slacciati, disordinati e terribilmente mossi, ma nonostante tutto non credo di aver mai visto capelli più belli e ordinati dei suoi. Mi viene in mente una cosa.
«Ieri ho letto una roba su Facebook, una frase»
«Una frase?»
«Sì. Era di Baricco, tratta da “Novecento”. Faceva tipo… aspè… ah, sì: “Uno che su una nave suona la tromba, non è che quando arriva la burrasca possa fare un granché. Può giusto evitare di suonare la tromba, tanto per non complicare le cose.”»
«La conosco. Bella no?»
Mi guarda. Capisce. Le sue labbra prendono la forma di un sorriso talmente ampio da far vedere i denti. Le sue lentiggini, il suo collo, le sue cicatrici, tutto emana luce solare illuminando la sua certezza già certa: mi conosce troppo bene. «Ti senti come il tizio che suona la tromba, vero?» dice, mentre mi guarda dentro come una maga.
«Sì»
«E come ti senti nei panni del trombettista?»
«Uno schifo»
«E perché?»
«Dai, un trombettista nel bel mezzo di una bufera? Inutile»
«Bisogna sempre essere utili a qualcosa secondo te?»
«Non dico questo, ma nel bel mezzo di un pericolo… cosa ci faccio con la tromba? Cosa me ne faccio del mio saperla suonare?»
«Niente. Non te ne fai niente, puoi solo dare una mano»
«Eh»
«Mi meraviglio che sia proprio tu a dirmi una cosa del genere, sai?»
«Perché?»
«Ma come, adori così tanto i film di genere apocalittico e non ti accorgi di quanto sia attuale nel discorso del trombettista durante una bufera?»
«Ferma… mi sono perso…»
«Nel bel mezzo del pericolo il trombettista si tirerà su le maniche e darà una mano come i sopravvissuti delle tue storie preferite. Fine. È questo che farebbero tutti. Non importa chi siamo. Attori, musicisti, infermieri, baristi. C’è sempre bisogno di noi durante un’Apocalisse. Tutto sta nel riconoscere i propri limiti»
«Odio avere dei limiti»
«Ma li hai, come tutti gli esseri umani. Devi solo conviverci, accettarti per come sei, suonare la tua tromba su quel palco quando sarà il tuo momento senza alcun cazzo di rimorso o senso di colpa. Senza svalutarti. Riceverai complimenti, critiche, fischi, pomodori ma continuerai a suonare la tromba, perché questo vuoi fare: suonare. Poi, al primo allarme, quando vedrai i primi schizzi d’acqua poserai la tua tromba con cura, scenderai dal palco interrompendo la tua esibizione e darai una mano. Se il tuo aiuto non servirà a nulla ti farai da parte, senza complicare le cose e senza sentirti un fallito inutile. Perché è così che si fa. Poi, quando tutto sarà passato, tornerai a suonare la tua tromba, facendo quello che ami fare. Tornerai ad essere ciò che devi essere perché vuoi esserlo. È questo quello che farai. Qualunque sia la cosa che stai cercando di fare, falla perché ti fa stare bene, perché vuoi farla. Impara a suonare la tromba guardando chi la suona meglio di te, ma suonala a modo tuo, come ti dice il cuore. Vedrai che non ci sarà bufera in grado di fermarti».
Silenzio.
Col fiato sospeso il pubblico guarda il finale della nostra storia arrivare con velocità sorprendente.
Titoli di coda.
Nessun applauso.
Lacrime e abbracci.
Il senso è stato capito.
Il narratore ha fatto il suo compito.
Musica.
Suono di tromba.

Andrea Abbafati

Il bicchiere di vita in questa birra di merda

Condividi con i tuoi social preferiti!

Novembre, ore 23.00. Esterno. Dal pub poco distante da noi esce musica house, dance… non so bene, non seguo il genere. So solo che fa “bum bum bum”. Ho gli occhi chiusi, mi lascio cullare dal silenzio rotto dalla musica assordante e dal sapore della birra fredda, poi c’è lei, al mio fianco. Sento la sua presenza, il suo sguardo, il suo respiro.
«Terra chiama Luna, Terra chiama Luna… Luna mi ricevi?».
Apro gli occhi. Lei mi guarda sorridente. «Ma buongiorno» dice. «Mpf», le rispondo. «Sei bloccato? Che hai?» domanda. «Niente, niente. Fa freddo» rispondo. Mi si avvicina, mi mette il braccio sinistro lungo le spalle e mi stringe a sé. «Se vuoi ci spostiamo dentro, il pub è pieno ma un posto lo troviamo sicuro» propone; «no macché, va bene qui. Adesso sento caldo» dico. Lei ride, poi poggia il bicchiere di birra quasi vuoto (o quasi pieno) sulle labbra e beve. Faccio lo stesso, anche se il mio di bicchiere è decisamente più quasi vuoto (o quasi pieno). Improvvisamente mi viene un’idea, stacco il bicchiere dalle labbra, mando giù la birra gelida e dico: «il bicchiere di vita in questa birra di merda». Lei smette di bere e mi guarda accigliata: «eh?». «Il bicchiere di vita in questa birra di merda» ripeto. Lei guarda il bicchiere poi dice: «se la birra fa schifo la finisco io… a me piace». Silenzio. «Ho avuto un’idea» dico. Lei capisce: «non farai come l’altra volta a lavoro che sei partito col furgone vuoto perché avevi capito come finire una delle tue storie eh?» e scoppia a ridere. Sbem. Colpito in pieno. Orgoglio ferito. «So che non sembra, ma non sono così rincoglionito: imparo dai miei errori» dico con una punta d’acido piuttosto evidente. «E come avresti risolto la cosa per non ritrovarti licenziato un giorno di questi?» chiede lei curiosa, col sorriso furbetto sempre stampato in faccia. «Comincio a pensare solo dopo aver caricato tutto. Niente pensieri, storie e idee dalle tre e trenta alle cinque del mattino e dalle dodici alle dodici e trenta del pomeriggio» dico. «Ottimo. E ci riesci?» chiede curiosa. «No» rispondo con amarezza, «ma ci provo con abbastanza impegno, tutti i giorni». «Non male, cowboy, non male!» esclama, mi dà un colpetto sulla spalla col pugno sinistro mentre riprende a bere la birra, che finisce. «Senti, vado a prenderne un’altra… tu la vuoi?» mi domanda. Guardo la birra, porto nuovamente il bicchiere sulle labbra e verso il contenuto in bocca, poi mando giù. «Sì, grazie» dico. «Sempre la stessa?». «Sempre la stessa». Prende il mio bicchiere vuoto e va, entra nel pub. Resto solo. Silenzio e musica. Solo silenzio e musica. Dicono che quando uno muore vede tutta la sua vita passargli davanti. Sto forse morendo? Adesso? Vedo tutto. Le mattine fredde a far colazione con lei, con gli amici. Le serate gelide a baciarsi, mezzi nudi nel parcheggio che la macchina è troppo piccola. I progetti fatti, i fogli di carta scritti. Chi se ne è andato. Chi è rimasto. Chi rimarrà. La palestra. La scuola. Il lavoro. I colleghi che ti offrono il caffè. I tatuaggi. I ‘grazie’. Le lacrime. La saliva sulle labbra. I battiti che aumentano.

I battiti che aumentano.

Apro la bocca.

Vado a tempo e parlo.

Vado a tempo.

Parlo.

Respiro forte, vado a tempo e parlo:
«Le cazzate che faresti per dimostrare ‘sta cosa ti uccideranno. I fremiti, il sudore, le notti in bianco, la musica rap nelle orecchie, le lacrime e le ansie che bruciano. I chilometri che faresti per dimostrare questo amore, i film che guarderesti per sopprimere questo orrore. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta. Le notti in bianco, il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. La puzza di polvere sotto il naso, le foto da modificare, le locandine fatte in casa con i pixel che prendono vita. Le imprecazioni, i ricordi, i curriculum sopra e sotto i copioni scritti e cestinati. La roba che scrivi, che c’hai da fa. Le notti in bianco, le lei dimenticate ma manco tanto, la tastiera vecchia che scricchiola, l’aria pesante che puzza, la guerra che fuori gioca a nascondino, la gente che ti dà retta. Il cappuccino alla mattina con gli altri, il caffè subito dopo, le gomme da masticare per dominare l’ansia, che non è precisamente ansia da prestazione. È ansia di essere all’altezza. L’ansia. I caffè, la gente che ti dà retta. Il bicchiere di vita in questa birra di merda. La roba che scrivi, che c’hai da fa, la gente che ti dà retta, il sipario vecchio che profuma di nuovo, gli occhi che ti guardano, la gente che entra e esce, la fiducia che non c’hai ma che ti danno loro. Il bicchiere di birra notturno e la corsa il giorno dopo. Il sipario vecchio che profuma di nuovo».
Silenzio. Anche la musica sembra fermarsi. Sento una presenza dietro di me. È lei.
«Dovresti bere ogni sera se l’alcol ti porta a partorire queste cose»
«No, non sempre. Oggi è una serata fortunata, forse»
«Avresti il permesso di essere licenziato tutte le volte che vuoi. Dovresti camparci con questa roba, sai?»
«Camparci? Ma mi hai visto?»
«Ti ho visto, ti ho visto. Il tuo problema è che metti radici, sempre detto io»
«Radici? In che senso?»
«Tieni, prendi la birra che ti spiego. Questo giro lo offro io» e si siede sul muretto. Intanto la musica ricomincia. Io sorseggio la birra in piedi, gli occhi su di lei, ma lei sta zitta e mi guarda, quindi mi siedo e lei comincia a parlare. «Metti radici. Ti aggrappi alle cose poi, appena queste giustamente e per natura cambiano o cessano di esistere, resti bloccato, spiazzato. Come con le tue ex. Mi hai detto che hai buttato tutti i loro regali, no?». La guardo. È una trappola? «Certo» rispondo, «ma che c’entra adesso?». «C’entra eccome, bimbo. Credi in quello che fai, ma fallo per te, non per gli altri. Per te. Punto» dice, poi beve un sorso di birra.
Ha ragione.
«Ok, allora da oggi basta festeggiare per gli obiettivi raggiunti. Hai ragione. Basta sorrisone soddisfatto, basta entusiasmo e basta restarci male per le cose quando vanno male o comunque non come vorresti» dico. Lei smette di bere. «Non hai capito una ceppa. Non dico di smettere di provare emozioni, porca vacca. Dico che dal principio devi fare una cosa per te, non per gli altri. Capito? È normale poi rimanerci male. Devi provare a non mettere radici. A sentirti libero, non legato a qualcosa o a qualcuno, altrimenti non vivi più. Le persone cambiano, gli eventi cambiano. Tutto cambia bimbo. Anche tu. Quindi perché aspettarsi l’alba di sera?» e continua a bere. Fisso la birra come uno che ha appena ricevuto una botta in faccia. Rifletto. Perché aspettarsi l’alba di sera? «Non pensarci troppo», dice, «non ci guadagni niente. Almeno stasera non pensarci. Bevi e basta, stavolta non ti faccio la paternale» dice lei. «Capirai, ‘sta birra farà sì e no cinque gradi» preciso io. «Allora non ubriacarti di birra, ma di libertà. Di silenzio. Lo senti il silenzio? Ecco. Azzera tutto. Spegni il cervello. Svuota tutto. Bevilo ‘sto bicchiere. Bevilo tutto. Vedrai che starai meglio. Com’era? “Il bicchiere di vita in questa birra di merda”» e mi bacia, poi alza il bicchiere: «cin cin!».

Andrea Abbafati

Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

«Ci fermiamo un attimo?».
Pausa, silenzio, lei si volta e mi guarda: «certo» risponde e allora ok, ci fermiamo un attimo.
Solita corsetta settimanale in due nel bosco, solo che oggi non ci sto né con la testa, né con il fisico. Lei capisce, in realtà ha già capito da quando siamo partiti. «Era ora» butta lì. La guardo, «”era ora” che?». «Era ora che ti fermassi. Mica sono scema, ti vedo e ti sento: stai a pezzi. Che hai, piccolo rottame che non sei altro?» domanda sorridendo mentre io mi trattengo per non rosicare. «Niente» rispondo, «sono solo stanco. Ci sediamo un attimo?», lei non risponde, si sdraia a terra con le braccia sotto la testa e lo sguardo verso l’alto, io faccio lo stesso, sollevato.
«Hai raggiunto il limite, eh?» dice lei improvvisamente. La guardo, capisco, sospiro: «sì». Ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito. Ripeto tutto, ma stavolta ad alta voce: «ammettere una roba del genere per me sarebbe stato impossibile fino a ieri, poi finalmente ho capito», lei distoglie lo sguardo dal cielo e mi guarda, «spiega» dice. «Stamattina mi sono fatto un caffè prima di attaccare a lavoro, ero talmente distratto che ad un certo punto ho dato una botta alla tazzina rovesciando tutto» lei sorride, io continuo «non puoi capire le imprecazioni, mie e di mia madre che s’è vista la tovaglia nuova diventare un Pocket Coffee». Pausa. Scoppiamo a ridere entrambi ed eccola finalmente… la leggerezza. Lei riprende fiato con difficoltà, poi finalmente fa la domanda importante: «sì, ma che hai capito?», io scelgo bene le parole per risultare il più delicato possibile: «che non possiamo controllare un cazzo di niente» lei sorride mordendosi le labbra, «t’è caduta la corona, Oxford» dice, poi scoppiamo di nuovo a ridere. Toh, eccola di nuovo la leggerezza. «Dai, quando ci vuole ci vuole» mi giustifico io ma lei subito alza le mani al cielo «ma non sto dicendo niente! Anzi ti prego, continua. Mi piace quando fai il filosofo» e sorride di nuovo guardandomi con quegli occhi che, Dio Santo, vorrei vederla guardarmi per sempre. «Non faccio il filosofo» continuo con difficoltà resistendo alla tentazione di perdermi nel suo sguardo, «faccio il realista. Non possiamo gestire un cazzo della nostra vita. Non possiamo scegliere un cazzo, tutto quello che scegliamo è perché ci viene data la possibilità di sceglierlo. Non vogliamo veramente quello che abbiamo, lo desideriamo solo perché ce lo ritroviamo davanti come unica scelta» e qui mi ferma con una smorfia: «quindi non mi vuoi davvero? Non mi hai scelto, brutto rottame che non sei altro?» domanda delusa ma io la zittisco immediatamente mettendole un dito sulle labbra: «a te ti sceglierei ogni volta tutte le volte in qualsiasi altra vita», lei sorride «non si dice “a te ti”», io sorrido «vedi? Non possiamo neanche scegliere come parlare» e scoppiamo a ridere di nuovo per qualche secondo, poi torno serio: «fino a ieri mi dannavo per ogni cosa. Poi stamattina, il caffè. Ho rovesciato il caffè e ho capito tutto. Devo lasciare andare le cose, le persone, godermi le giornate, staccare ‘sto cazzo di internet» e subito lei mi fa l’eco «“staccare ‘sto cazzo di internet”!» e io continuo «mettere la modalità offline quando riposo, mangiare e bere qualcosa con gli amici ogni tanto e ‘sticazzi della dieta» e lei mi fa nuovamente l’eco «“e ‘sticazzi della dieta”!» e io continuo ancora «smetterla di specchiarmi che tanto non mi piacerò mai, smetterla di preoccuparmi per gli altri, smetterla di chiedere sempre se va bene qualcosa o se sta bene qualcuno. Chiedermi se sto bene io» e di nuovo lei con l’eco «“chiedermi se sto bene io!”» e io che continuo imperterrito «e dire qualche “vaffanculo” ogni tanto, qualche “sticazzi”, staccare la televisione, scrivere tanto, leggere fumetti, libri, riposare quando ho turni pesanti, non pensare sempre e soltanto ad arrivare da qualche parte e ogni tanto pretendere, che porca troia mica devo essere sempre io quello che sta ai comodi degli altri», lei stavolta resta zitta, ha capito che sono serio… io guardo in alto, il cielo è limpido e c’è un sole pieno che ci illumina totalmente. Apro leggermente la bocca e parto: «’sticazzi» e spalanco le braccia facendo cerchi di terra e sollevando polvere su polvere, lei scoppia a ridere, «’sticazzi!» e si alza, «’STICAZZI!» urla a squarciagola, «a noi non ce ne frega niente per oggi, abbiamo chiuso!» e salta da tutte le parti, fa le capriole, imita una scimmia, poi si sdraia nuovamente accanto a me, sudatissima. «Sei fuori forma, cocca» stuzzico io, «’sticazzi!» urlacchia lei. Di nuovo la leggerezza, di nuovo scoppiamo a ridere. Mi siedo, nonostante il sentirmi leggero mi sento strano, non pienamente libero. Lei mi imita, sedendosi al mio fianco e poggiando la testa sulla mia spalla. «Ieri volevo mollare tutto. Ho avuto un attimo di tentazione… volevo mandare a fare in culo tutto e tutti. I progetti, la gente che non mi dava retta e quella che voleva tanto spiegarmi che problemi aveva. Mi sentivo stanco, arrivato, senza più limiti. Lavorare, lavorare, lavorare… per cosa? Dove devo arrivare? Che tanto più sembra che faccio passi avanti e più perdo energie a dare un senso a tutto. “Ho chiuso” mi son detto, “mi ritiro”». Pausa. Silenzio. Lei trattiene il fiato: «e poi?» domanda. Poi ho pensato a lei. «Poi ho pensato a te» dico e il suo sguardo si illumina, «a tutti quelli che ho al mio fianco e ai quali amo offrire la birra, regalare braccialetti, scroccare la cena. Ho pensato a tutto e ho capito: ho solo bisogno di una pausa, di uno “’sticazzi” e di un “vaffanculo”, semplice semplice, senza sentirmi male cercando di essere sempre forte, senza sentirmi arrivato, senza dovermi per forza di cose sentirmi indistruttibile» lei capisce, sorride, «stamattina a lavoro mi hanno dato un furgone senza porta USB, quindi ho dovuto sorbirmi le canzonette di merda della radio… e sai cosa? L’ho fatto. Anzi, per un’oretta buona ho anche guidato a stereo spento, senza musica. Ascoltavo i rumori che entravano dal finestrino aperto. Ascoltavo me stesso», «poi t’ho chiamato io» aggiunge lei, «poi mi hai chiamato tu» confermo io. Sorridiamo. «Sei leggero cocco, lo sento» afferma lei, «hai semplicemente bisogno di sentirti così più spesso». Rifletto, annuisco, mi alzo. «Riprendiamo a correre?» suggerisco ma lei mi si para davanti, guardandomi dritto negli occhi: «oh» dice. «Oh» dico. Sorride: «riprenditi, affronta le cose con leggerezza». La guardo: «Leggerezza? Pesantezza casomai», «pesantezza?» chiede guardandomi, «sì, pesantezza, come una roccia». Mi guarda. «Come una roccia?» domanda, «sì, come una roccia» ripeto. Lei sorride alzando le spalle, «come una roccia», io insisto, sempre più convinto: «come una roccia, porca puttana». Lei annuisce, sorride uno dei suoi sorrisi enormi, poi: «oh sì… come una roccia, porca puttana!».
Mi bacia.

Passo la mano tra i capelli

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

Passo la mano tra i capelli. Ora posso. Sono cresciuti di un bel po’ e non ho più la “boccia”. Pensa te che stupido, rasarmi a zero perché crescevano troppo velocemente e si gonfiavano, mentre ora ho ricominciato a mettermi la gelatina e ogni tanto ci ficco le mani in mezzo, nei momenti in cui ho bisogno di un contatto ravvicinato col mio cervello.
A saperlo prima che bisognava solo trovare la misura giusta: andare dal parrucchiere, farseli accorciare nei punti in cui si gonfiano come mongolfiere e via, capelli quasi normali e zero battutine sulla calvizie (che a questo punto se arriverà saprò chi incolpare).
Misure. Bastava prendere le misure. Come quando parcheggi col furgone in mezzo a due auto parcheggiate a cazzo di cane. O come quando stai allestendo uno spettacolo teatrale e con lo Staff sei lì che prendi misure per sistemare bene la scenografia, per evitare che si veda il “dietro le quinte”.
Misure. Come quelle che la gente non si dà, sparando a zero, a buffo, magari spesso quasi rischiando di (o “riuscendo a”?) rovinare la vita delle persone.
Continuo a passarmi la mano tra i capelli, più e più volte: la situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
Che faccio? Continuo così o lascio? E’ abbastanza? Ma sarà mai abbastanza? Sarò mai abbastanza? Intanto i capelli continuano a crescere, la roba da fare si accumula e il tempo diminuisce improvvisamente. I capelli crescono di più, di più e sempre di più. «Ciao, giusto una spuntatina, grazie!» e via così, daccapo, sempre più daccapo. Punto e accapo.
Punto e accapo.
Punto e accapo.
Passo la mano in mezzo ai capelli, scarico una cesta, scribacchio qualcosa. Passo la mano in mezzo ai capelli, saluto i Pupi, ripeto una battuta. Passo la mano in mezzo ai capelli, ho paura di perdere gente, tremo seduto ad un tavolino con lei che mi guarda. Passo la mano in mezzo ai capelli, porca troia troppo lunghi, «ciao, giusto una spuntatina, grazie!». Passo la mano in mezzo ai capelli, ascolto i Pupi che provano, ceno con i miei e mio fratello. Passo la mano in mezzo ai capelli, mi guardo ossessivamente allo specchio, vado a trovare i nonni. Passo la mano in mezzo ai capelli, vado a correre, non so che cazzo fare stasera. Passo la mano in mezzo ai capelli, spero di poter contare su qualcuno, penso se tatuarmi o no.
Daccapo. Punto e accapo. Punto e accapo.
Punto e accapo. Punto e accapo. Daccapo.
La situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
C’è traffico, forse un incidente, passo la mano tra i capelli: spero tutto bene.
Faccio un errore a lavoro, mi mordo le labbra, passo la mano tra i capelli: cerco di accettare di essere umano, di poter sbagliare.
Aspetto. Attendo. Mi guardo intorno. Cosa c’è che non va? Cosa c’è che va? Cosa sto facendo? Cosa posso fare? Passo la mano tra i capelli, provo a decidere, a fare una scelta.
Aspetto.
Odio aspettare. Ma aspetto.
Aspetto. Ma odio aspettare.
Odio aspettare.
Ho dormito poco, ho ancora la birra in corpo, le chat con gli amici aperte, gli occhi lucidi e stanchi, la divisa sporca addosso, l’alba che bussa alle porte. Passo la mano tra i capelli. Comincia un’altra giornata.
Metto le cuffie, ignoro tutto. Non ci sto male. Non ci sto assolutamente male. Allontano la mia sensibilità e gioco a fare il duro. L’inesperienza mi tradisce: passo la mano tra i capelli.
Silenzio.
Ripeto.
Passo la mano tra i capelli, i Pupetti svolgono un esercizio teatrale, io li guardo e sorrido, passo la mano tra i capelli, mi chiama mamma, passo la mano tra i capelli, mi scrivono qualcosa per messaggio, passo la mano tra i capelli, “chissà se mi ha risposto?”, passo la mano tra i capelli, ho sbagliato ancora ma meglio dell’ultima volta, passo la mano tra i capelli, io ci credo alla Famiglia, passo la mano tra i capelli, no dai, nessun tatuaggio, passo la mano tra i capelli, vorrei baciarla stasera, passo la mano tra i capelli, ho scritto troppo.
Sospiro. La situazione richiede ragionamenti importanti e distrazioni interessanti e produttive.
Sorrido.
Bisogna prendere misure.
Passo la mano tra i capelli.
«Mo ce pensa Andrea».

Andrea Abbafati

Di barche, di promesse, di capelli sciolti

Condividi con i tuoi social preferiti!

«Oh»
«Eh»
«Vedi che faccio ritardo»
«”Buon anno!”»
«Anche a te».
Sospira. Si sente la rassegnazione che attraversa la rete telefonica.
«Sei un idiota» dice. «Grazie» rispondo. «Ti sto aspettando da mezz’ora in piazza. Fa un freddo bestia. Dove sei?» chiede.
Domanda sbagliata. Domanda sbagliatissima.
«A casa».
Silenzio. «A casa? Che vuol dire che sei a casa?». Sospiro. «Sì. Sono a casa. Seduto in camera. In mutande». Di nuovo silenzio. «Sei a casa, seduto in camera, in mutande?» ripete domandando più a sé stessa che a me. «Sì» dico io. «Mea culpa» aggiungo.
Silenzio. Mamma mia quanti silenzi.
«Non dici niente?» chiedo. «Meglio per te che non dica niente, fidati». Sogghigno, lei mi sente. «Che ridi, cretino?». «Non sto ridendo… sto sogghignando. Comunque scusa, davvero. Dammi dieci minuti e arrivo». «Dieci minuti e arrivi?». «Sì, il tempo di fare una doccia e sono da te. Va beh, forse più di dieci minuti…». Silenzio.
«Ancora con questi silenzi… ho avuto un problema, ok? Ti chiedo scusa». «Che problema hai avuto? Roba grave?» chiede lei improvvisamente preoccupata. Penso. Roba grave? «Non lo so. Forse sì, forse no. Pensavo». «Pensavi». «Pensavo, sì».
Silenzio.
«Beh, anch’io pensavo» dice. «A cosa?» chiedo. «A quanti schiaffi ti prenderai prima della mezzanotte» taglia corto.
Brividi. Silenzio. Brividi di silenzio.
«Ci tengo a te» dico io. «Non mi compri con le smancerie questa volta. Buffone» dice lei.
Sorrido.
Prendo fiato.
Parto.
«Pensavo a quest’anno che è passato. A me. A te. A noi. Poi di nuovo a te. Pensavo a quanto bella sei, alle persone che ho perso, a quelle che ho incontrato. Pensavo a questa roba qua… e mentre ci pensavo mi sono seduto e sono rimasto così tipo per un’ora. Ti chiedi mai se facciamo abbastanza? Non voglio attaccare un pippone ma… davvero, facciamo abbastanza secondo te? La gente si accorge che esistiamo? Che facciamo cose? Che ci amiamo… che ci vogliamo bene? La gente capisce il senso delle nostre cose? Braccialetti… tatuaggi… sguardi… foto… sacrifici… chili in meno… chili in più… rancori… la gente capisce tutto questo o semplicemente chiude gli occhi e scappa? Se sì, se no… che senso ha tutta questa matassa di roba sensata o meno?».
Prendo fiato nuovamente ma lei mi interrompe prima di iniziare a parlare. «Fermo» dice. «Ho capito». Pausa. «Ho capito tutto».
Sorrido.
Prende fiato.
«Non me ne frega niente della gente. Quello che faccio lo faccio perché fa stare bene me e chi amo. Tatuaggi, braccialetti, collane, capelli sciolti, capelli legati, mezz’ora ad aspettare in piazza…» (pausa punitiva) «…tutto questo ha senso per me. Cosa deve capire la gente? Che mi vedo brutta? Che mi vedo bella? Che tengo a te? Che fa freddo e voglio abbracciare qualcuno? Cosa devo spiegare, alla gente? Chi salta dalla barca ha un motivo, una destinazione ed è un vincente per questo, anche se abbandona la nave. Chi resta, lo fa perché ha trovato casa, perché sta bene, perché ha trovato un motivo per non saltare giù. Ha trovato un motivo per rinunciare alla libertà di andarsene».
Tutto chiaro. Come sempre. Come ogni volta che parla lei.
«E adesso porca la vacca, vienimi a prendere che fa freddo, mannaggia a me e a quando sono puntuale!» sclera.
Sorrido. Scoppio a ridere. «E’ vero» dico, «ho freddo anch’io». «E ti credo! Sei in mutande, deficiente!». Scoppiamo a ridere insieme.
«Oh»
«Eh»
«Arrivo. Facciamo mezz’ora, ok?»
«Ok»
«Prepara gli schiaffi»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo»
Rido.
«Arrivo»
«Ti aspetto»

Andrea Abbafati

SOS

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati

Autoritratto (storia di una virgola)

Condividi con i tuoi social preferiti!

 

Bip bip. Bip bip. Bip bip. Bip–
Spegni la sveglia impostata al cellulare. L’ottava. Oggi è giorno di riposo. Oggi ti riposi.
La mente allenata a svegliarsi automaticamente alle tre e trenta del mattino, gli occhi che esplorano la stanza bagnata dal poco sole coperto dalle nuvole e la gola secca che non emette suoni.
«Ehm, ehm» provi a buttar giù. Bene. Le corde vocali sembrano rispondere. Tutto si muove, tutto funziona. Vivo anche oggi, metti i piedi giù dal letto. E’ tardi. E’ sempre tardi, anche se non hai nulla da fare per una volta. Per un giorno.
Nella stanza il disordine. Il portatile scarico, la batteria da cambiare, il carica batterie ancora attaccato alla presa elettrica, fogli sparsi sulla scrivania e fumetti ossessivamente posti in ordine numerico che appesantiscono le mensole di legno vecchie e coperte da pagine di mensili doppioni.
Ti rechi in bagno, apri l’acqua, ti sciacqui la faccia e ti guardi allo specchio. Barba incolta, capelli rasati, ciglia troppo grandi e un naso che sembra rotto ma che piace molto a molte. Le “mani da pianista”, come le ha sempre chiamate tua nonna ti carezzano il volto. Tale e quale ad ora. Sei tale e quale ad ora. Identico, spiccicato a come sei ora. Va tutto bene. In sala i tuoi si scambiano qualche battuta, ridono. Tuo fratello ti saluta con un cenno della testa. I nonni, di sotto, sono svegli dalle sei di mattina. Il cane ha fame e scodinzola davanti la porta. Fuori fa freddo, è novembre, manca poco a Natale. Tu, ancora in mutande, continui a guardarti allo specchio. Guardi il tuo corpo che cambia, che finalmente ti piace e che hai paura di veder rovinato, di nuovo. E pensi al passato. A ciò che è stato. A tutto quello che ti ha permesso di essere quello che sei ora.
Ti vesti. Fai colazione. Esci.
Fa freddo. Dalla bocca esce vapore misto a pensieri. Il tempo di un caffè e subito riesci a gestire la paranoie: ormai sei allenato. Hai parcheggiato l’auto lontano, così puoi passare del tempo con te stesso, camminando piano. E quanti saluti, quante strette di mano. Quante persone che a causa del tuo nome e cognome ti confondono per un altro.
La piazza è vuota, di questi tempi meglio stare a casa a passare il tempo libero. Qualche locandina affissa ti ricorda che è tempo di spettacolo. Il teatro forte, speranzoso, ricco di sogni e idee che non muore mai.
Ieri sera hai finito un fumetto nuovo e visto una puntata della tua serie tv preferita. Alimenti spesso il tuo cervello con storie scritte e raccontate da altri… il paradosso di chi scrive: per riposare e cercare l’ispirazione ci si nutre dei racconti urlati a squarciagola nel freddo vento invernale.
«Ciao bello, caffè al vetro o in tazza?» chiede la barista che non rispecchia assolutamente la ragazza dei tuoi sogni, quindi neanche ci provi. «Tazza, grazie» rispondi tu, poi «potrei avere il dolcificante al posto dello zucchero?». La linea è importante. Un caffè veloce accompagnato da qualche chiacchiera interessante spiccata da un chiacchiericcio noioso. Iniziano così le storie migliori. Finito il caffè paghi ed esci dal bar. La piazza continua ad essere vuota. Cammini. Decidi di attraversare sulle strisce pedonali e subito un signore che sembra aver fretta si ferma con l’auto e ti fa passare. Ringrazi. Lui sorride, poi riparte altrettanto di fretta. Passa una signora con le buste della spesa, si incrociano i vostri sguardi. Stavolta sei tu a sorridere, lei ricambia e abbassa la testa. Si vergogna? E’ davvero così intimo un saluto, di questi tempi? Più intimo della nudità?
Improvvisamente, un peso. Scansi leggermente la felpa che hai addosso e ricordi di avere al collo due collane. Pesano. Il peso dei sogni che si sente di più quando hai la testa vuota, rilassata, quando sei distratto. Il peso che ti ricorda che non si è mai da soli, una volta dato il via a qualcosa.
Acceleri il passo e ti ritrovi da solo, in mezzo ad una stradina.

Silenzio.

Respiri. Non hai paura.

Poi, da un vicoletto lì vicino, spunta una ragazzetta che dimostra quattordici, quindici anni. Canticchia tra sé. Si ferma un attimo, ti guarda, smette di cantare. I suoi enormi occhi marroni ti scrutano silenziosamente. Ha i capelli arruffatissimi e tra un capello e l’altro ti sembra di vedere un sogno incastrato che ancora non è riuscito a spiccare il volo. Avrà il suo tempo. Prima o poi riuscirà a districarsi da quei lunghi capelli e volerà lontano, ne sei sicuro e vorresti dirglielo ma lei, ancora concentrata su di te, ti precede disegnando sul suo viso con il pennarello dell’innocenza un sorriso sgargiante, pieno di luce. E’ già agosto?
E via. La piccola sognatrice continua il suo canto immersa tra i vicoletti di questo paese silenzioso. La guardi uscire dal tuo campo visivo canticchiando e saltellando, mentre tutt’attorno nulla è più grigio. Tutto è salvato.
Torni a casa. O meglio, prima torni alla macchina, poi torni a casa. E’ tardi. Vai in bagno e ti guardi allo specchio: le pupille dilatate come se avessi assunto qualche droga, le mani raggrinzite a causa del freddo, il cuore ben coperto e al caldo così come lo stomaco, in subbuglio. Sorridi. «Che poi, ti affanni tanto a cercare un motivo, un perché, quando basta stringere forti i pugni» dice il tizio allo specchio. Ha più capelli, qualche anno meno di te, meno esperienza, il naso che sembra rotto. «Ti fai trasportare troppo. Respira. Sii calmo. Non puoi salvare il mondo» continua. «Non posso salvare il mondo?» sussurri, sorpreso. «E allora che ci sto a fare?». «Fai parte della storia» dice lui. «Sei la virgola che se messa al posto giusto può dar senso alla frase». Sorride, «e ti prego… fai bella figura. La grammatica è importante» e se ne va. Lo specchio resta vuoto. Capisci. Anche il vuoto ha una storia. Anche le assenze portano avanti il racconto, per quanto male possano fare.
Le collane improvvisamente sembrano bruciare: una rappresenta un tornado, l’altra la libertà. Le stringi talmente forte che quasi le mani iniziano a sanguinare. Via dallo specchio, il riflesso non serve. Apri un’anta dell’armadio e ne tiri fuori un mantello rosso sgargiante che indossi immediatamente. Salvare il mondo magari no, ma nessuno ha detto che tu non possa essere un supereroe, giusto?
Nessuna maschera, trasparente come pochi, pugni ben stretti e gambe pronte a scattare. T’aspetta il mondo. Una storia da raccontare. Un falò e tutti attorno, per proteggersi l’un l’altro.
Il mondo no, non riuscirai a salvarlo… ma sorridi ugualmente, deciso, pronto.
Con coraggio, paura, dedizione e timore, farai sicuramente il possibile per far finire la storia nel miglior modo possibile, sfruttando tutto il potere che ti è concesso.

Finalmente un motivo. Finalmente un perché.

Riuscirai in tutto, virgola.

Andrea Abbafati