«Non hai paura?» mi chiede guardandomi negli occhi. Non vorrei esagerare ma è forse la prima volta che mi guarda così. Sembra quasi spaventata. «Certo» rispondo, «guardami bene, guarda la mia faccia… ti sembro uno che non ha paura?». Sorride. «Perché, comunque?» chiedo, lei risponde subito «beh, fa sempre piacere sapere di non essere i soli ad aver paura. Se fossimo costretti… voglio dire… se ci trovassimo a dover affrontare anche il terrore da soli… beh, sarebbe un casotto no?». Un “casotto”. Sorvolo. «Sì. Sarebbe un… casotto. Sì».
La guardo bene. I suoi sorrisi sono forzati, la faccia stanca, le mani quasi tremano. Improvvisamente guarda in alto. «Sai» dice, «alla fine non sappiamo davvero niente del mondo in cui viviamo».
Silenzio religioso. Ha ragione, lo riconosco. Ma d’altronde lei ha sempre ragione.
«Non facciamo altro che dirci “va così”, “è così che deve andare”. Poi basta, buio, fine, game over. Ai matrimoni applaudiamo, ai funerali pure. Cambia solo l’emotività. Per il resto è tutto uguale. Stessi gesti. Cambiano gli sguardi. I respiri. L’odore». Abbassa la testa. «Passiamo le giornate a sperare che vada tutto bene. Preghiamo affinché qualcuno possa dirci “non sei inutile, sei importante per me!”. Ci accontentiamo delle solite frasi fatte». Ora mi guarda. Mi sta guardando. «A te sta bene?», mi domanda. Ci penso su. A me sta bene? Trattengo il fiato, poi butto lì: «porca vacca, no!». Sorride. «A me non sta bene affatto. Infatti la battaglia è ancora in corso» dico. Lei continua a fissarmi, stavolta incuriosita. «Che battaglia? Che vuoi dire?». «Voglio dire che stiamo combattendo. Una guerra vera. E non è una di quelle cose che piacciono a me per la sopravvivenza… zombie, apocalisse, cose così… no. E’ una guerra brutta, vera, che miete vittime tutti i giorni. Ogni mattina ci alziamo con indosso già l’armatura, ma raramente ce ne accorgiamo». Continua a fissarmi, apre leggermente la bocca come per parlare ma io la blocco subito: «sì» dico, «non preoccuparti. Io e te lottiamo fianco a fianco, in questa guerra». Le sorrido. Mi sorride. «Grazie» dice. «Grazie di che?» le chiedo. «Di aver paura insieme» mi risponde.
Mi abbraccia.
Andrea Abbafati