L’alba, il mostro, la spada e l’ascia

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Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Scendo dal furgone. Alba magnifica. Merita una foto.
Click.
Salgo sul furgone. Attivo il vivavoce dal cellulare.
Metto in moto il furgone. Premo il tasto ‘chiamata’ dal volante.
Tu-tu-tu-tu-t «ehi».
Eccola. «Ehi». «Buongiorno» dice. «Buongiorno» dico, «scusa se t’ho svegliata». Silenzio. «Ti ho scritto io ieri sera che potevi chiamarmi quando volevi che tanto non sarei riuscita a dormire, cretino» dice lei. Silenzio. Ha ragione. «Hai ragione. Piccola dimenticanza» butto lì. «Che hai? Sei strano» chiede. Sgamato. «Niente, niente. Sto portando un ritardo di mezz’ora. Mezz’ora, ci credi? C’è traffico. C’era la fila anche al bar, ergo sto senza caffè. Senza caffè, ci credi?», «ci credo» risponde lei ridacchiando, «fermati al primo bar che trovi ora e prenditene due, di caffè» suggerisce con poca furbizia. «No» rispondo secco io, «mi si accumulerebbe il ritardo. Ma scherzi? A che ora torno a casa oggi? A mezzogiorno? È tardi porca vacca, è tardi!». Silenzio. Sta ridendo. «Beh?» chiedo, «che ridi?». Smette di ridere, prende fiato e… «niente, niente, cercavo di immaginarmi dentro a quel furgone che aria elettrizzante tira» e scoppia a ridere di nuovo. Provo a resistere, ma sbotto a ridere anch’io. «Puzza» rispondo, «puzza di chiuso, ma se apro i finestrini rischio di rimanerci secco dal freddo. E non mi funziona neanche la cazzo di pennetta USB oggi. Porca troia», «Ah. Male. Ho presente come stai quando sei costretto a guidare senza musica. Metti un po’ di radio no?», «no. Lo sai che odio la radio. Mettono canzoni di merda e parlano di cose di merda con un’ironia di merda e già la giornata è cominciata una merda, se poi finisce di merda ci resterei di merda».
Oh, merda, ho esagerato.
«Scusa» dico, «è meglio che attacchiamo dai, sto a mille e rischierei di sfogarmi con te».

Silenzio.

Silenzio.

Silenzio.

Ancora silenzio.

«Oh? Ci sei?» chiedo. «Certo che ci sono, imbecille. Non azzardarti mai più a chiedermi di attaccare, tanto non attacco. Lo sai come funziona. Se uno dei due ha bisogno chiama l’altro. Se non ha bisogno, chiama l’altro. Se si sente solo, se non si sente solo, se vuole solo chiacchierare, se non vuole chiacchierare, chiama l’altro. A qualsiasi ora, in qualunque momento, in ogni multiverso possibile e immaginabile» dice lei. Più chiara di così si muore. «Chiaro?» insiste. «Chiaro. Più chiaro di così si muore». Ride. «L’hai vista l’alba?» dico. «L’ho vista» dice. «Va tutto una merda, eh?» domanda improvvisamente. «No» rispondo io, «non va tutto una merda. La merda cade su altri. Cioè, ognuno ha la sua merda, per carità, ma come si dice: c’è chi sta peggio». Silenzio. «Senti» dice lei «se devi cominciare a tirare fuori frasi fatte senza un motivo valido allora sì, attacca». Silenzio gelido: è seria. «Niente frasi fatte» prometto. «Allora dimmi che hai, anche se già lo so». SBEM. «Già lo sai?» domando. «Già lo so» risponde. «Sentiamo» sfido io. «Ok» accetta la sfida, si schiarisce la voce e parte «pensi troppo. Di nuovo. Sempre. Porca vacca nei prati se pensi troppo. Vai in loop. Chissà a cosa stai pensando adesso. Anzi no, lo so: “Oh mio Dio mi ha sgamato… e se un giorno si stancherà di me e del mio accollo continuo?”», «mi accollo?» la interrompo, «LO SAPEVO! No, non ti accolli brutto rincoglionito, era per dire! Argh!» sbotta lei e io scoppio a ridere, «e non ridere quando sono seria!», «scusa», «niente, figurati». Silenzio. «Dicevo», si schiarisce nuovamente la voce, «pensi troppo. Cioè, ti conosco da tanto ormai… dormiamo insieme, mangiamo insieme, viaggiamo insieme, sogniamo insieme e sento sempre, sempre il tuo cervello che pensa, che si muove, che rompe le palle con ‘sti cazzo di problemi che ti fai. Problemi inutili, lo sai, ma sono tentacoli per te, quindi non ti chiedo di ignorarli. Ma di tagliarli sì, questo posso chiedertelo. Quindi… tagliali». Silenzio. La strada mi scorre davanti, il sonno continua a bussare ai finestrini ma io vado troppo veloce. Supero un bar pieno di gente, poi ne supero un altro e un altro ancora. «Oi, ci sei?» chiede lei rompendo il silenzio. «Certo che ci sono» rispondo, «scusa. Pensavo», «vaffanculo», «no, stupida, pensavo davvero. Pensavo a quello che mi hai detto. Hai ragione, inutile dirlo no? Hai sempre ragione tu. Va bene, taglierò i tentacoli. O almeno ci proverò» rifletto, penso in fretta, «ci provo sicuro». «Bravo. Tira fuori la spadina e colpisci il mostro enorme» dice lei, «io sarò al tuo fianco con i Pop Corn». Pausa, silenzio. «Con i Pop Corn?» chiedo. «Sì, con i Pop Corn. Perché sarà una battaglia da urlo bello mio, uno spettacolo. Ma uno spettacolo vero, con i fuochi d’artificio finali, tutti che si alzano urlando il tuo nome e l’intero stadio che esplode euforico». Silenzio. «Ci sei?» chiede, «sì, scusa stavo…», «no, nessuna scusa» mi blocca lei, «tranquillo, ti stavi allenando, ho capito. Il mostro si sconfigge così: allenandosi. Quindi allenati, pensa il giusto e agisci esageratamente. Affila la spada, che i tentacoli hanno la pelle dura e corazzata». Silenzio. Continuo ad ascoltarla a bocca aperta. «Grazie» balbetto, «di niente, scemo» risponde lei. «Ehi ascolta, devo scaricare. Se vuoi ti chiamo tra poco… o provi a dormire un po’?», «dormire? E chi dorme più ora? Sto preparando l’ascia!» urlacchia tutta eccitata. «L’ascia?» chiedo io, «eh! L’ascia! Così mentre tu ti occuperai del mostro grande io potrò guardarti le spalle facendo fuori i teschi che spuntano dal cimitero». Penso. Sorrido. «Tu sei matta» dico, poi scoppio a ridere, «io te l’ho sempre detto che non sei solo, bello mio» mi risponde. Sorrido. «Ci sentiamo dopo» mi dice. «Ci sentiamo dopo» le dico.

Scendo dal furgone.
«Ciao, buongiorno».
Scarico la cesta.
Firmo la bolla.
«Ciao, grazie, buona giornata».
Salgo sul furgone. Osservo fuori dal vetro.
Il mostro è enorme, bella mia, e gli scheletri già cominciano a spuntare dal cimitero… tutto è in dubbio e l’oscurità ricopre il mondo. La gente comincia a scappare, sento il peso della spada che mi pende dalla cinta. Sorrido testardo. Hai ragione tu, come sempre.
Ce la faremo.

Di barche, di promesse, di capelli sciolti

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«Oh»
«Eh»
«Vedi che faccio ritardo»
«”Buon anno!”»
«Anche a te».
Sospira. Si sente la rassegnazione che attraversa la rete telefonica.
«Sei un idiota» dice. «Grazie» rispondo. «Ti sto aspettando da mezz’ora in piazza. Fa un freddo bestia. Dove sei?» chiede.
Domanda sbagliata. Domanda sbagliatissima.
«A casa».
Silenzio. «A casa? Che vuol dire che sei a casa?». Sospiro. «Sì. Sono a casa. Seduto in camera. In mutande». Di nuovo silenzio. «Sei a casa, seduto in camera, in mutande?» ripete domandando più a sé stessa che a me. «Sì» dico io. «Mea culpa» aggiungo.
Silenzio. Mamma mia quanti silenzi.
«Non dici niente?» chiedo. «Meglio per te che non dica niente, fidati». Sogghigno, lei mi sente. «Che ridi, cretino?». «Non sto ridendo… sto sogghignando. Comunque scusa, davvero. Dammi dieci minuti e arrivo». «Dieci minuti e arrivi?». «Sì, il tempo di fare una doccia e sono da te. Va beh, forse più di dieci minuti…». Silenzio.
«Ancora con questi silenzi… ho avuto un problema, ok? Ti chiedo scusa». «Che problema hai avuto? Roba grave?» chiede lei improvvisamente preoccupata. Penso. Roba grave? «Non lo so. Forse sì, forse no. Pensavo». «Pensavi». «Pensavo, sì».
Silenzio.
«Beh, anch’io pensavo» dice. «A cosa?» chiedo. «A quanti schiaffi ti prenderai prima della mezzanotte» taglia corto.
Brividi. Silenzio. Brividi di silenzio.
«Ci tengo a te» dico io. «Non mi compri con le smancerie questa volta. Buffone» dice lei.
Sorrido.
Prendo fiato.
Parto.
«Pensavo a quest’anno che è passato. A me. A te. A noi. Poi di nuovo a te. Pensavo a quanto bella sei, alle persone che ho perso, a quelle che ho incontrato. Pensavo a questa roba qua… e mentre ci pensavo mi sono seduto e sono rimasto così tipo per un’ora. Ti chiedi mai se facciamo abbastanza? Non voglio attaccare un pippone ma… davvero, facciamo abbastanza secondo te? La gente si accorge che esistiamo? Che facciamo cose? Che ci amiamo… che ci vogliamo bene? La gente capisce il senso delle nostre cose? Braccialetti… tatuaggi… sguardi… foto… sacrifici… chili in meno… chili in più… rancori… la gente capisce tutto questo o semplicemente chiude gli occhi e scappa? Se sì, se no… che senso ha tutta questa matassa di roba sensata o meno?».
Prendo fiato nuovamente ma lei mi interrompe prima di iniziare a parlare. «Fermo» dice. «Ho capito». Pausa. «Ho capito tutto».
Sorrido.
Prende fiato.
«Non me ne frega niente della gente. Quello che faccio lo faccio perché fa stare bene me e chi amo. Tatuaggi, braccialetti, collane, capelli sciolti, capelli legati, mezz’ora ad aspettare in piazza…» (pausa punitiva) «…tutto questo ha senso per me. Cosa deve capire la gente? Che mi vedo brutta? Che mi vedo bella? Che tengo a te? Che fa freddo e voglio abbracciare qualcuno? Cosa devo spiegare, alla gente? Chi salta dalla barca ha un motivo, una destinazione ed è un vincente per questo, anche se abbandona la nave. Chi resta, lo fa perché ha trovato casa, perché sta bene, perché ha trovato un motivo per non saltare giù. Ha trovato un motivo per rinunciare alla libertà di andarsene».
Tutto chiaro. Come sempre. Come ogni volta che parla lei.
«E adesso porca la vacca, vienimi a prendere che fa freddo, mannaggia a me e a quando sono puntuale!» sclera.
Sorrido. Scoppio a ridere. «E’ vero» dico, «ho freddo anch’io». «E ti credo! Sei in mutande, deficiente!». Scoppiamo a ridere insieme.
«Oh»
«Eh»
«Arrivo. Facciamo mezz’ora, ok?»
«Ok»
«Prepara gli schiaffi»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo»
Rido.
«Arrivo»
«Ti aspetto»

Andrea Abbafati

SOS

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L’una di notte. Probabilmente sto facendo la cazzata più insensata della mia intera vita ma poco importa. La faccio. Voglio farla.
Sto per spegnere l’auto ma improvvisamente dallo stereo parte una canzone rap strana, mai ascoltata prima. Ne seguo attentamente il testo… riesce a coinvolgermi, mi ispira e subito vorrei tornare a casa a scrivere per sfogarmi un po’ ma penso che qui ci sei tu, quindi resto. Mentre aspetto che finisca la canzone ecco che incomincia a pioviccicare. Le gocce scorrono lentamente sui finestrini dell’auto come volessero dirmi qualcosa, esortarmi a tornarmene a casa o a scendere dalla macchina.

La canzone finisce.

Spengo la macchina.

Apro lo sportello.

Esco.

Non piove forte ma fa un freddo cane. Esce vapore ad ogni pensiero che faccio. Sono praticamente una vaporiera.
La casa è lì davanti a me ma è tutto spento, anche le luci della sua camera.
Vai, si comincia.
Come nei libri che piacciono alle ragazze. Come nei film smielati che odio.

Mi chino.

Prendo un sassolino.

Lo lancio contro la sua finestra.

Tic.

Niente.

Di nuovo.

Tic.

Niente, di nuovo.

Di nuovo, di nuovo.

Toc.

«Quanto sei carino».

Sobbalzo.
Mi volto.
Lei è dietro di me, appena uscita da un cespuglio, come nei cartoni animati che amavo da ragazzino.
Il mio orgoglio si frantuma e la vergogna comincia a salire che è un piacere. «Che ci fai qua fuori?» riesco a balbettare. Improvvisamente, il caldo. «Stavo venendo da te» risponde lei. Eh? «Eh? In che senso?» chiedo io. «Stavo venendo da te a tirarti sassi alla finestra. Ammetto però che li avrei scelti un po’ più grossi dei tuoi…» risponde, poi sbotta a ridere e mi salta addosso abbracciandomi. «Ferma» insisto, «veramente stavi venendo da me? E perché?». Lei si stacca e mi guarda con un sorrisetto beffardo. «Perché no?». La guardo, lei continua a ridere. Tutto questo è umiliante. «Volevo farti una sorpresa» butto lì, «e avevo bisogno di te». «Avevi?» chiede, «ho» rispondo. Mi abbraccia di nuovo poi avvicina le sue labbra al mio orecchio sinistro e «tutto questo è molto romantico, carino» e scoppia a ridere di nuovo. E’ tutta una risata oggi. «Comunque piove» le dico, mentre la vergogna pian piano cala di intensità, «se restiamo qui ti bagni dalla testa ai piedi». Silenzio. Improvvisamente si blocca e mi fissa sbalordita. Passa qualche secondo, poi… si siede. La guardo confuso. «Che fai?» chiedo, ma lei non risponde quindi mi siedo al suo fianco e le poggio una mano sulla gamba. «Beh?» domando. Finalmente mi guarda, con le gocce d’acqua che le cadono dai capelli: «sono molto delusa. Davvero». Silenzio. «E’ da quando ci conosciamo che ti rompo le palle sul fatto che si fanno le cose in due… e ora?». Continuo a guardarla intontito senza capirci nulla. Lei capisce che non capisco quindi sbuffa e «mi bagno dalla testa ai piedi?» chiede, «mi?». Capisco. «Ci» mi corregge, «ci bagniamo! Perché “mi”? Tu sei impermeabile? Uff!». Uff. «Quando sbuffi così sembri un personaggio dei cartoni animati» le dico e subito lei comincia a prendermi a cazzotti alternandoli a minacce varie tipo “adesso ti faccio vedere io” e “ti graffio gli sportelli della macchina se mi paragoni nuovamente ad un cartone animato”. Poi si calma. Restiamo per un po’ in silenzio ad ascoltare il rumore della pioggia che ci bagna mentre il vapore che esce dalle nostre bocche fa disegni astratti per aria per poi sparire nel nulla.
«Comunque era un complimento» le spiego, «somigliare ad un cartone animato dico, era un complimento. Nel senso, sei buffa quando sbuffi in quel modo». Non l’avessi mai fatto. Mi guarda. La guardo. «Hai il naso grosso» sbotta improvvisamente. Sorrido. «Non hai nemmeno i capelli» aggiunge. Continuo a sorridere. «E poi sei anche stupido» conclude. Scoppio a ridere. «Lo sai che non mi scalfisci minimamente, vero? Sei troppo innocente per ferirmi a parole. E sai anche che i capelli me li rado, stupida» le spiego e subito lei trattiene il respiro, si morde le labbra e… «hai ragione. Non so offenderti. Hai perfettamente ragione». Mi rilasso. Ha gettato la spugna. Finalmente possiamo stare tranquilli.
«Non riesci nemmeno a fare una sorpresa che subito vieni sgamato».
SBEM. Lampo a ciel sereno. «Sei una stronza» dico. «Lo so» risponde lei.
Silenzio. La guardo. Mi guarda. Scoppiamo a ridere. «Ho vinto io!» dice lei tutta contenta. Sì, hai vinto tu, bella mia. Vinci sempre tu.
«Ha smesso di piovere» mi fa notare e subito si accovaccia a me, «se domani avremo la bronchite sarà esclusivamente colpa tua» continua sorridendo. «Comunque, come mai questa sassaiola? A cosa devo il piacere?» mi domanda mentre mi stringe forte a sé. «Diciamo che era un SOS». «Un SOS? Addirittura?». «Sì. Un SOS bello potente» concludo. Sì, un SOS veramente bello potente. Lei mi stringe sempre più forte. «Spara allora» dice, poi resta in attesa pronta ad ascoltare. Respiro. Mi avvicino lentamente a lei, poi… «BANG!». Stavolta è lei a sobbalzare, «sei veramente un cretino! Stupido! Stai facendo di tutto per allungare il brodo e tenermi appesa alle tue labbra… sei più noioso della tua serie tv sugli zombie preferita che ormai fa puntate di cinquanta minuti basate su colpi di scena inesistenti!» e ricomincia a prendermi a cazzotti. Io rido. Lei ride. Ricomincia a piovere. «Sono venuto perché amo abbracciarti e in una situazione di pericolo o di indecisione penso immediatamente a questo. Al fatto che amo abbracciarti» dico mentre la pioggia cerca di coprire le mie parole, quindi alzo leggermente la voce fregandomene del fatto che ormai si son fatte le due. «Ho una domanda da farti» annuncio e subito lei mi concede la sua attenzione alzando il sopracciglio: «spara» dice, «NO! Non farlo! Dimmi… DIMMI!» si corregge subito e io faccio veramente fatica a trattenere la risata per quanto è bella, ma il momento è serio: «non hai mai la paura improvvisa di restare da sola? Non pensi mai che magari un giorno ti sveglierai e ci sarai solo tu? Senza me… senza le persone che ti hanno accompagnata fino ad oggi… tu. Solo tu». Silenzio. Riflette. «Sola tipo come in una di quelle storie apocalittiche che piacciono tanto a te?» chiede. «Sì, anche» rispondo io, «più o meno dai. Facciamo che ti svegli sola, ma con la gente attorno. Cioè io ci sono, anche i tuoi amici… ma l’affetto che ci contraddistingueva no. Sei sola. Scopri improvvisamente di aver lottato per creare qualcosa ed essere stata l’unica a crederci e a volerla portare avanti davvero». La sento che pensa per qualche secondo poi fa una smorfia disgustata: «brutto» mormora. «Brutto sì» concordo, poi la stringo sempre più forte. «Beh… partendo dal fatto che se credo in qualcosa la porto avanti comunque… capita di restare da soli. E’ capitato, sta capitando e capiterà. Ma una volta presa una strada si deve proseguire, quindi se proprio mi ritroverò da sola vorrà dire che lotterò per sopravvivere come ho sempre fatto» spiega. «Sta alla base di tutto, no? Fa sicuramente paura… ma fa parte dell’animo umano. Ad un certo punto secondo me bisogna diventare egoisti, pensare prima a sé stessi e andare avanti, altrimenti si muore da soli. E deve essere veramente brutto morire da soli». Rifletto su ciò che ha appena detto mentre prende fiato e continua: «non so cosa ti sia successo ma se vuoi puoi approfittare del fatto di non essere solo e di avere me al tuo fianco» dice mentre mi stringe con una forza inaudita, «so quanta passione metti in tutto quello che fai… sei tale e quale a me, per questo ci prendiamo così bene. Pensiamo che tutti la pensino come noi. Siamo convinti che tutti siano disposti a sacrifici immensi per portare avanti la causa e restiamo sempre a bocca aperta come dei fessi quando scopriamo a nostre spese che non è così». La ascolto con attenzione e mi ritrovo nella descrizione: un fesso a bocca aperta. Mi ha capito. Mi capisce da sempre. Lei c’è e prende nuovamente fiato come se dovesse immergersi dentro di me per scovare la radice del problema: «potrai venire tutte le notti alla stessa ora qui e lanciarmi massi contro il vetro ma io sarò saltata fuori dalla finestra prima del tuo arrivo ogni volta, perché ti capisco. Perché non sto mai ferma ad aspettare, proprio come te. Siamo simili. Mai immobili. Neanche adesso: seduti su un prato sotto la pioggia, eppure mai stati così in movimento come ora. Ecco perché ti capisco: siamo soldati nella stessa guerra. Ci puliamo le ferite insieme perché sappiamo che se non ci medichiamo tra di noi siamo belli che spacciati».

Penso. Lei mi guarda. Io penso e lei mi guarda.

«Dove t’ho trovata?» domando. Lei ride. «Se non la smetti di fare il fesso ti lancio un sasso in faccia». La delicatezza. «Allora? Soddisfatto della risposta?» chiede. «Assolutamente. Un SOS magnifico» rispondo, «grazie. Davvero».  Silenzio. Lei solitamente odia i miei grazie ma questa volta non sembra voler dire nulla. Restiamo a guardarci in silenzio forse per ore, magari per qualche minuto, poi lei si alza, io faccio altrettanto, ci guardiamo, ci abbracciamo e da così, abbracciati, lei improvvisamente mi sussurra all’orecchio, con la sicurezza di chi c’è: «di niente, soldato».

Andrea Abbafati

Pausa

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Sono le sei e fa freddo. La notte se ne sta andando e io ogni tanto mi ritrovo a pensare a te alternando i tuoi occhi a qualche battuta del copione nuovo che sto studiando. Ne son successi di casini ultimamente, ma sono rilassato. Tranquillo. L’atmosfera mi aiuta.
Sono sul furgone, sto lavorando. Dallo stereo esce musica rap direttamente dalla mia pennetta USB… roba troppo confusionaria per una mattina così. Stacco e imposto lo stereo su ‘radio’. Stanno passando un tormentone estivo. Meglio di niente.
Sul sedile del passeggero fa la sua bella presenza una raccolta di testi teatrali di Benni tra i quali fa capolino prepotentemente “Il Dottor Divago”, uno dei miei pezzi preferiti. Ecco, mi sento come lui in questo preciso istante. Solo che no, fuori non piove. Ma tu non ci sei.
Potrei chiamarti ma già so cosa mi diresti: «ehi», e io «ehi. Scusami se ti ho svegliata» e tu mentiresti spudoratamente «ma scherzi. Ero sveglia». Piccola bugiarda tradita dalla tua stessa voce assonnata. Ma nonostante il sonno di entrambi staremmo le ore a sentirci respirare, io che ogni tanto scendo e risalgo dal furgone e tu sempre lì, in attesa. Perché è questo che fai: attendi.

Ma non ti chiamo.

Perché non sarebbe giusto.

Perché non vorresti ascoltarmi. O forse sì.

E poi devo lavorare.

Gli occhi mi cadono su un’alba spettacolare ma non riesco a fotografarla in tempo. Dai, lo sai che non uso il cellulare mentre guido. E’ pericoloso. Quindi mi fermo in un piazzale vuoto e scatto una foto ad un altro pezzetto di alba assolutamente diverso da quello di prima ma comunque bello. Potrei tornare indietro e fotografare quel tratto meraviglioso che come un dipinto mi ha accecato gli occhi ma sarebbe un’incoerenza pazzesca ed imperdonabile. Ho scattato una foto per te, che mi hai insegnato a non guardarmi indietro, ad apprezzare quello che ho adesso… non avrebbe senso tornare indietro per immortalare qualcosa che reputo più bello. Va bene così. Ci accontentiamo di questo pezzo di alba oggi, ok?
Metto in moto nuovamente il furgone e mi rimetto in cammino. Avevo lasciato il volume della radio a palla e quindi mi prende quasi un colpo quando la nuova canzone trasmessa parte in modo violentissimo. Che spavento! Penso a come avresti reagito tu, cominciando a dare piccoli calci a terra come una bambina arrabbiata perché una piccola paura improvvisa le ha buttato a terra l’elmetto da guerriera, e sorrido. «Che ridi, scemo?!» mi urleresti tu, «niente!» risponderei io e continuerei a guidare trattenendo la risata più grande del mondo.
Pausa. Ecco. Questa mattinata la chiamerò “Pausa”. Pausa a tutto e da tutti. Pausa da te, ti lascio dormire. Per questa volta mi accontento di immaginarti ma domani ti chiamo sicuro. Alle quattro. Domani ti chiamo alle quattro, appena sveglio. Sai che meraviglia? Entrambi assonnati, rincoglioniti dal sonno ma felici di sentirci. Probabilmente.
Pausa. Oggi sono in pausa. Spengo lo stereo. Si sente qualche grillo che canticchia fuori, mentre il furgone sfreccia piano per le strade. Si, piano. Dai, lo sai che non corro per strada. E’ pericoloso.
Pausa. Oggi metto in pausa. Il rumore. L’amore. La rabbia. Il rancore. I dibattiti. Lo stomaco che fa male. La dieta. Il senso di colpa per averla già infranta ieri, la dieta. Il mal di testa. Oggi metto in pausa anche lo studio del copione.
Squilla il telefono. Sei tu.
«Ehi scemo! A che punto stai?». “Ancora in alto mare bella mia. Non sono nemmeno a metà giro” dovrei dire, «buongiorno bella mia! Quasi a metà giro. Come mai già sveglia?» chiedo. Mi hai insegnato tu a guardare sempre positivo. «Ho dormito una merda». “Linguaggio!”, «linguaggio!». «Dai, ci manchi solo tu che mi fai la predica di prima mattina! Volevo solo sentirti, penso che andrò a farmi una doccia». “Lava via ogni cosa, bella mia. Tranne me”. «Perfetto. Ci sentiamo quando finisco, ok? Colazione insieme?» propongo. «Colazione insieme!» ripete lei, poi mette giù.
Pausa. Oggi sono in pausa. Non esiste niente, solo la strada. E la percorrerò tutta, fino alla mia destinazione.
Pausa. Oggi metto in pausa. Oggi vado piano, mi concedo un respiro in più. Accendo di nuovo la radio, stanno passando la pubblicità. Sorrido.
Pausa. Oggi pausa. Tutto tranquillo. So per certo che stavolta sì, stavolta andrà tutto bene.

 

Andrea Abbafati

Occhi sporchi

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«Tu hai gli occhi sporchi» dice.
«Eh?». “Eh?” è l’unica cosa che mi viene in mente per rispondere ad un’affermazione del genere.
«Hai gli occhi sporchi», ripetere tecnicamente non varrebbe, ma lei può. «P-può da-può darsi» balbetto, poi continuo ad osservarla. «Sai» dice lei «se hai gli occhi sporchi ti sembra tutto sporco». Silenzio. «Andrebbero puliti quegli occhietti». “Occhietti”: uno dei termini che odio di più al mondo, mi immagino sempre un volto enorme con due occhi minuscoli, quasi inesistenti… l’orrore… ma la sua voce ha l’incredibile potere di trasformare le cose schifose in quasi belle e allora sì, ho “gli occhietti”. «Beh… non so che dirti» butto là e lei subito, quasi avesse la risposta pronta «non sai che dire perché non vedi bene. Se hai gli occhi sporchi non vedi tutto nella sua forma, automaticamente non sai commentare, descrivere, parlare, vivere». Si alza. «Bisogna pulire quegli occhietti» dice, poi mi si avvicina, io ancora seduto la osservo. «E come?» chiedo, quasi temendo la risposta. «Chiudendoli un po’» dice lei. «Facendoli riposare. Li usi troppo. Stai troppo attento ai dettagli, li fai girare spesso. Vortici di curiosità. Ci pulisci gli angoli, con quegli occhi. Che pretendi poi? Che non siano sporchi?». Continuo a guardarla. Lei in piedi, bella, io seduto sul muretto, capelli rasati che tutti scambiano per calvizie e una bella miopia che mi fa vedere le cose in modo distorto. “Hai gli occhi sporchi” ed è subito chiarezza. Tutto è chiaro. Tutto si vede meglio. «Hai ragione. Di nuovo» dico, lei sorride presuntuosa. «E che t’aspettavi?» fa, poi si inginocchia sul muretto e mi abbraccia. Io la stringo più forte che posso e me ne esco con una frase che raramente dico: «mi aiuti a pulirli, ‘sti occhi?». Mi guarda. Ha lo sguardo pulito. Lo sguardo che pulisce. Le orecchie che ascoltano. Le labbra sincere, pronte a salvare. I capelli lunghi, che riscaldano e profumano di buono. Lentamente, le sue labbra si aprono ed esce la salvezza: «certo, piccolé».

Andrea Abbafati

Del caffè

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Del caffè, dell’effetto che non fa sulla mia mente. Dell’odore della notte e della mattina presto, col sole che fa la prova tecnica per l’esibizione del giorno. Dei pensieri, dei racconti, della nausea post corsa dopo un’intera settimana passata a rincorrere. Di te che appari e scompari, di me che odio i giochi di magia. Delle sigarette, della puzza di fumo e dell’improvvisa voglia di sperimentare per vedere una volta tanto qualcosa uscire definitivamente dal tuo corpo e sparire nell’aria. Dei sentimenti grandi, immensi, meravigliosamente senza senso e della paura di perderli per sempre.
Di quello che succede del mondo. Delle serie tv sui supereroi. Dei fumetti che tra poco spezzeranno le ante della tua libreria. Delle avventure e delle canzoni tristi che partono mentre guardi l’orizzonte.
Degli addii.
Dei turni di lavoro, dei giorni di riposo con sveglia alle nove e alzata a mezzogiorno.
Della voglia di cambiare. Delle prove continue tutte le sere. Dei copioni imparati a memoria. Degli applausi, delle risate, dei complimenti, delle repliche, della voglia di fare qualcosa. Delle canzoni sussurrate sopra la musica per non perdere la voce prima di uno spettacolo. Dei saluti, delle litigate, della nostalgia degli abbracci. Di quando stavamo insieme. Di quando eravamo una squadra, tipo i Power Rangers, solo che non facevamo le mosse strane.
Dei ‘ti amo’, ‘ho paura’, ‘vaffanculo’. Della noia che ti porta a scrivere. Della stanchezza che ti porta a farti un caffè e a berlo amaro, perché “lo zucchero ingrassa”. Delle paranoie. Delle battaglie. Delle passeggiate solitarie ad attaccare locandine. Dei soldi spesi in cazzate.
Di te che te ne vai. Di te che torni. Delle nostre battaglie insieme. Dei sogni. Dei desideri. Di stasera che vado a cena con i nonni. Di me. Delle mie battaglie. Di noi. Delle nostre battaglie. Del mondo. Delle sue guerre.
Di quanto sei bella. Di quello che siamo. Di quando ti parlo e di quando mi guardi. Di quanto mi parli. Di quanto è bella la notte insieme. Di me che ti dico di non aver paura di nulla, che tanto ci sto io. Di te che mi poggi la testa sul petto alla mattina presto. Del mio cuore che batte. Dei nostri cuori che battono.
Che tanto sarà l’affetto a farci a pezzi. Sarà ‘sto “tump tump” ad ammazzarci.

Andrea Abbafati

Chomp

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<<Chomp>>.
La guardo, <<eh?>> butto lì, ma lei ripete <<chomp>>, quindi mi parte un improvvisato ma potente <<ma che sei scema?>> e lei scoppia a ridere. <<Chomp!>> ripete, <<la tua testa fa “chomp chomp chomp” come quando mastichi qualcosa con gusto! Chomp!>>. Ok, è scema quanto bella. <<Sei scema quanto bella>> dico, lei sorride. <<Che hai?>> mi fa <<e se mi rispondi “niente” ti mordo>>. Mh.
<<Mi sento a disagio>> dico, <<hai presente quel disagio che hai quando sei in una situazione decisamente scomoda? Che non ti appartiene?>>, lei annuisce, <<ecco. Mi sento così>>. Lei mi guarda, o meglio i suoi occhioni mi guardano, mi scrutano attentamente, poi la sua testa si avvicina pericolosamente alla mia, la sua bocca si apre leggermente e… <<CHOMP!>>. Rido d’istinto, anche se leggermente contrariato. <<Sfotti? No perché dal tuo modo di fare potrei pensare che mi stai prendendo in giro>> dico a denti stretti fingendo di essere offeso ma lei non ci casca, mi prende la testa tra le mani e <<prenderti in giro? Io? Bello mio, dovresti saperlo… se sei a disagio tu sono a disagio io>>. Silenzio. <<Cosa ti fa male precisamente?>> domanda lei, <<alcune cose. Situazioni. Persone. Pensieri. Parecchi pensieri. “Chomp”, come diresti tu>> rispondo io ed eccola che ride di nuovo. <<Scusa, non ti sfotto. È che davvero fai tenerezza. Valuti i problemi, ma non le soluzioni>>. Penso, poi chiedo <<cioè?>>, <<cioè>> attacca subito lei <<io e te siamo uguali. Non siamo uno davanti all’altra adesso così, per caso. Siamo qui perché abbiamo deciso di affrontare tutto in due>>. Capisco. La guardo. Lei mi fissa, sorride e chiede <<proviamo a sentirci a disagio insieme?>>. Mi scappa una risata, lei evidentemente la prende come un sì, <<perfetto!>> urla, poi incrocia le gambe e si mette in posizione yoga, chiude gli occhi e comincia a sussurrare svariati <<chomp chomp chomp chomp chomp!>> muovendosi avanti e indietro.
Scema.

Andrea Abbafati