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Guardo l’orologio del furgone: segna un’ora avanti, quindi tecnicamente sono le ore precedenti rispetto l’ora segnata sullo schermo. Sono in ritardo, tanto per cambiare. Davanti a me la fila ferma di macchine in attesa che passino i supereroi a due ruote: gara ciclistica in corso, tutto bloccato. Di domenica mattina, sotto il sole cocente nel punto preciso in cui non c’è ombra manco a pagarla.
Ho già dimenticato l’ora ma evito di guardare l’orario sbagliato dello stereo: è una giornata di merda e come tale non ha orari. Lo sanno tutti. Quando una giornata inizia male non ha senso guardare che ora è perché il tempo si ferma e dura più a lungo, non finisce più e il momento del riposo non esiste, quindi tanto vale continuare a non guardare in che fascia oraria del giorno mi trovo.
Ho poche ore di sonno sul groppone e non riposo decentemente da troppo tempo, mi bruciano gli occhi, ho fame e non ho neanche fatto colazione. Ho un giramento di coglioni non indifferente. Da record. Mi guardo attorno sperando si materializzi improvvisamente un qualcosa, una via di fuga, un motivo per togliermi la divisa di dosso e buttarmi a capofitto in qualche avventura senza pensare ad un cazzo. Troppo volgare. A niente. Senza pensare a niente. La fila comincia a districarsi e improvvisamente mi squilla il telefonino.
È lei. Rispondo. «Oh». Silenzio. «Oh» ripete lei. «Beh?» chiedo io, «Che è successo?», «ma che risposta di merda è “oh”? Io ti chiamo e tu mi rispondi “oh”?» dice lei con quel tono magico, poetico e dolce che mi ricorda quei film horror in cui già al primo minuto schiatta qualcuno. È incazzata. Pure lei. «Scusa» mi riprendo subito io, «è che sto fermo in mezzo al traffico, aspetto che i principi in bicicletta decidano chi deve vincere la gara», intanto le auto davanti cominciano a muoversi quindi mi accingo ad avanzare lentamente. «Ah, capito» butta giù lei, «tra quanto stacchi?», «sto tornando ora per partire con il secondo giro, faccio giusto in tempo a prendermi un caffè da qualche parte penso», «ottimo» dice lei, «fermati al prossimo bar, sono dietro di te». SBEM. «Che?» domando io e lo sguardo mi va automaticamente sullo specchietto laterale sinistro e la vedo: lei, che lampeggia come una matta facendo smorfie con la bocca. Mi esplode il cuore. «Avevo bisogno di te, bella mia» sussurro più a me stesso che a lei, «eh? Che hai detto?» chiede lei, «niente… imprecavo contro i ciclisti. Senti appena arriviamo al bar ci fermiamo, ok?», «ok, tesssssoro» urla lei e lo sguardo mi torna allo specchietto e posso guardarla sfoggiare la sua bella lingua rossa con sguardo da smorfiosa.
Finalmente la strada si libera, avanzo per un po’ con lei al seguito, poi svolto a destra e mi fermo davanti ad un piccolo baretto della zona. Parcheggio, scendo e chiudo il furgone, lei è stata più veloce di me e mi aspetta in piedi, poggiata alla sua auto. «Buongiorno scemo!» dice con la grazia di una che riesce in modo tremendamente facile a superare un’incazzatura potente. Mi avvicino e faccio per abbracciarla ma lei mi ferma con una mano sul petto e mi guarda attentamente negli occhi: «stai incazzato nero. E sei stanco» dice scrutandomi attentamente, io sorrido stupito… volevo solo abbracciarla. «Volevo solo abbracciarti» ammetto, «perché devo essere sempre quello incazzato e stanco?» domando e lei risponde immediatamente con un «uff». “Uff”? «Cominciamo davvero con le domande complesse alle undici di mattina senza neanche aver preso un caffè?». Giusto… le undici; l’orologio segnava le dodici meno un quarto, quindi erano le undici meno un quarto, ovviamente quindici minuti dopo sono le undici, logico.
Decido di accantonare la questione “uff” e la accompagno nel bar. Il barista ci chiede cosa vogliamo, lei ordina due caffè, io sto zitto e la guardo. Non ho mai creduto nell’amore, nella bellezza fine a sé stessa, ma lei mi completa. È talmente spontanea, talmente piena di bene che non capisco come facciano gli altri a non innamorarsene.
Mi sta guardando. «Forza. Caffè ordinati, adesso possiamo affrontare i discorsi seri» dice. Comincio. Sono un fiume in piena, sicuramente adesso le dirò tutto quello che mi circola nella testa e nel cuore, cioè «niente». Niente? «Niente?» domanda, «ma come niente? Ti ho guardato imprecare contro i ciclisti quando non sapevi che ti stavo osservando. Sono anche quasi sicura tu ne abbia mandato a fanculo qualcuno… e adesso non hai niente?». Ops. Beccato. Prendo fiato. «Senti, non voglio incazzarmi, ok? Non devo incazzarmi, va bene? Ultimamente mi è stato fatto notare che mi incazzo sempre. Autocontrollo, ecco cosa mi serve. Devo riuscire a gestire la rabbia. Calmarmi. Devo prendere le cose più alla leggera, tutto qua». Silenzio. Arrivano i caffè ma lei sembra non accorgersene: mi guarda. «Quindi non puoi parlarne con me?». Steso. «Ma certo che posso parlarne con te… che c’entra? Solo che adesso volevo provare a calmarmi da solo, ad affrontare la cosa tra me e me ecco, tutto qua». «Mandando a fare in culo i ciclisti» sottolinea lei, «no… no! Non ho mandato a fare in culo nessuno!» mento io ma niente, lei scoppia a ridere. Sbuffo, so già che durerà per molto, prendo il caffè, lo condisco di dolcificante e bevo, lei fa altrettanto con lo zucchero di canna ma aspetta che la risata le passi, poi beve tutto di un sorso.
«Per una volta vorrei sentirmi come Cannavaro nel 2006 quando ha alzato la coppa» butto lì.
Silenzio. Lei posa lentamente la tazzina sul bancone, gli occhi spalancati fissi su di me: «tu» sussurra, «tu che parli di calcio? Ma soprattutto… tu che hai visto i mondiali del 2006?» domanda esterrefatta, «ma che c’entra?» mi giustifico, «non sto parlando di calcio, uno, e due: certo che li ho visti i mondiali. Ho anche festeggiato e per poco non infilzo uno con la bandiera quando Grosso ha segnato il rigore» ammetto sapendo già quale sarà la sua reazione… e infatti, ride. Ride tanto, porta le mani alla bocca e si dondola come una scema. La solita esagerata. «Seguivo ancora il calcio da ragazzino… ma adesso non è questo il discorso, sono serio!» esclamo offeso, cercando di riportare ordine. Lei capisce e mi guarda seria ed interessata: ora ho di nuovo la sua attenzione. «Dicevo, vorrei sentirmi come lui. Come Cannavaro in quel preciso istante. C’hai mai pensato a come devono essersi sentiti gli Azzurri? Secondo me hanno avuto la certezza assoluta di essere riusciti in quello che dovevano fare. Hanno vinto il mondiale, porca puttana. Cannavaro ha sollevato la coppa. S’abbracciavano tutti. L’Italia intera festeggiava con loro. Ecco, per un solo istante vorrei sentirmi così». Lei mi ascolta attenta, io continuo. «E come Grosso. Porca vacca, ma l’hai visto l’autocontrollo di Grosso al rigore decisivo? Io sarei morto. E avrei sicuramente sbagliato». Lei sorride, io mi fermo a pensare. «Non lo so che c’ho. Sono solo contento di poterne parlare con te», «e io sono felice di poterti ascoltare, scemo» risponde lei con un sorriso bellissimo, «e tu potrai essere Cannavaro e Grosso messi assieme ogni volta che vorrai. Ne hai tutte le capacità e soprattutto la grinta. Hai la grinta, cazzo, ma non te ne rendi conto» conclude. La guardo: «ho la sindrome del bagnante» confesso. Mi guarda, ora è confusa, «la sindrome di che?», domanda. «La sindrome del bagnante» ripeto io convinto, poi mi accingo finalmente a spiegare: «ieri sono andato in piscina con gli amici, ricordi? Ecco, tolta l’ansia di mettermi a torso nudo davanti a tutti ma va beh, ‘sta fissa che ho la conosci. Ecco, tolta l’ansia, sai la prima cosa che ho fatto qual è stata?» lei scuote la testa curiosa, «ho guardato il bagnino. Cioè, ho pagato l’entrata della piscina e neanche mi son messo la crema solare che subito ho guardato il bagnino», «e perché?» chiede lei. Mi preparo al peggio: «perché c’ho la sindrome del bagnante, te l’ho detto. Avevo paura di non essere fisicamente alla sua altezza. ‘Sti cazzo di bagnini hanno i fisici da supereroi, e ogni volta che uno va al mare deve subire il confronto. La sindrome del bagnante: sentirsi inferiori a qualcuno in un contesto comune». Finisco di spiegare e resto a guardarla in attesa di una sua risata fragorosa ma lei resta stranamente in silenzio, gli occhi fissi su di me, poi apre leggermente la bocca e dice: «ha senso». SBEM. Proseguo. «Ecco, ho la sindrome del bagnante. In ogni contesto. Si può chiamare anche “sindrome di bassa autostima” se vogliamo, magari rende di più. Mi sento a disagio in mezzo alla gente, perché so che risulterò sempre l’anello debole, quello che non sa e non può risolvere le situazioni. Sarò sempre un comune bagnante, non un bagnino. Sarò il babbano di turno, non il mago che va ad Hogwarts. Sarò sempre il civile che guarda i supereroi salvare il mondo e magari rischia anche di essere schiacciato da un grattacielo che crolla». Finisco di parlare e mi accorgo di avere la bocca allappata quindi ordino un bicchiere d’acqua del rubinetto e pago i due caffè, mentre lei sta zitta a pensare, stavolta con lo sguardo fisso sul pavimento.
Acqua bevuta, conto pagato, lei ancora che guarda per terra, le faccio segno di uscire e mi segue. Appena metto piede fuori mi manca il respiro a causa del caldo che quasi vorrei mandare a fare in culo il lavoro, i ciclisti e tutto il resto e tornare di nuovo nel bar per restarci fino a sera con lei, che adesso mi guarda con quegli occhioni bellissimi e quella bocca che è solo da baciare. Respiro. Sento il suo respiro. Le carezzo i capelli con la mano e sto per baciarla ma lei comincia improvvisamente a parlare, come un fiume in piena: «siamo due Babbani bellissimi che se ne fottono delle scope volanti e vanno in alto anche senza. Due civili che si vogliono bene, che si amano e lottano giorno dopo giorno contro i super cattivi senza avere i super poteri. Siamo due bagnanti che non ci penserebbero due volte se dovessero vedere qualcuno in acqua in difficoltà e correrebbero in soccorso, anche senza saper nuotare», vorrei abbracciarla ma mi impongo di farla finire. Deve dirmi tutto quello che ha dentro, perché solo lei può svoltarmi la giornata. «E sì, tu ti incazzi sempre, ma perché ci tieni. Tieni alla gente, alle cose che fai, ci credi. Quindi oh, incazzati. Fai macello, corri per due, tre ore, prendi a cazzotti il muro, ma non tenerti tutta ‘sta roba dentro perché il mondo perderebbe qualcosa di prezioso». Sbuffo, «il mondo non ha bisogno di uno che si emoziona per quello che fa e che si mette a parlare da solo sul furgone quando sta incazzato. Il mondo ha bisogno di gente che sappia prendere la decisione giusta al momento giusto. Certe volte mi sento in colpa ad emozionarmi per quelle che essenzialmente sono stronzate rispetto ai dolori che in questo preciso stanno affrontando molte persone. Boh. T’ho detto, ho mancanza d’autocontrollo e la sindrome del bagnante e insieme sono terribili. Vedo tutto nero e quando sono arrabbiato faccio i macelli. Devo calmarmi. Ah, c’ho pure la sindrome dell’abbandono se proprio vogliamo dirla tutta. A te capita mai? L’ossessione di essere abbandonati… di essere lasciati soli… la paranoia fissa in testa di essere sostituiti con qualcuno?» le domando, ma lei non risponde, si avvicina e mi bacia. La guardo. Mi guarda. «E questo?» dico. «Questo è il premio per essere quello che sei. Prendilo anche come assicurazione nel caso ti abbandonassi… dovrai ridarmelo. Dovrai riconsegnarmi il bacio. Allora mi bacerai e mi innamorerò nuovamente di te. Perché tu sei così. Sei da amare, scemo». SBEM. «Adesso va’, torna a lavoro, che devi salvare il mondo, bagnante coraggioso» dice sogghignando e dandomi un colpetto sul petto. La guardo, sorrido, poi la stringo forte a me. «Allora è deciso: alieni, zombie, maghi oscuri, ciclisti e bagnini maledetti… niente potrà fermarci. E soprattutto io non t’abbandono, e tu non abbandoni me» dico. Lei scoppia a ridere, mi prende il volto tra le mani e mi guarda dentro, nell’anima, come se avesse la vista a Raggi X di Superman: «mai».
Andrea Abbafati